Fatti
La liberazione degli ultimi ostaggi israeliani, rapiti da Hamas il 7 ottobre 2023, avvenuta il 13 ottobre a Gaza ha riportato alla mente di tanti, non solo in Israele, i momenti drammatici e sanguinosi di quell’attacco che vide alcune migliaia di terroristi palestinesi penetrare nei kibbutz di Nir Oz, Be’eri, Netiv HaAsara, e altri centri intorno alla Striscia di Gaza, prendendo ostaggi, dando fuoco alle case e uccidendo uomini, donne e bambini. In quel giorno Hamas attaccò anche il Nova festival, raduno musicale cui partecipavano circa 3500 giovani, uccidendone 364 e prendendo 44 ostaggi. In totale le vittime civili e militari furono 1200, i rapiti 250, 30 dei quali bambini. Per gli ostaggi liberati comincia adesso un lungo percorso di cure specialistiche per riprendersi dal trauma.
Un percorso simile è quello che sta portando avanti Roy Salomon, neuroscienziato cognitivo presso l’Università di Haifa con i sopravvissuti del Nova Festival. Salomon è, infatti, co-fondatore di SafeHeart, una Ong nata proprio il 7 ottobre 2023 per offrire assistenza psicologica a queste persone grazie a una rete di psicologi, psichiatri, assistenti sociali clinici, psicoterapeuti e istruttori specializzati. Sono oltre 2000 i giovani sopravvissuti che, fino ad oggi, hanno fatto ricorso a SafeHeart. Riconosciuto per i suoi contributi scientifici, il prof. Salomon è stato invitato a parlare alle Nazioni Unite sulle innovazioni in materia di salute mentale nella cura del trauma.
Professor Salomon, quali sono stati i principali traumi psicologici riscontrati tra i sopravvissuti al massacro del 7 ottobre e, in particolare, tra quelli del Nova Festival?
Tutti i sopravvissuti hanno vissuto un evento traumatico estremo. Tutti noi, prima o poi, affrontiamo nella vita esperienze traumatiche: la perdita di un genitore, un incidente, una malattia. Tuttavia, quando il trauma è frutto di violenza interpersonale, le sue conseguenze psicologiche possono essere devastanti.
In genere, dopo un evento traumatico, la maggior parte delle persone riesce a riprendersi entro sei mesi o un anno: resta la tristezza, ma la vita riprende il suo corso.
Una parte significativa, però, sviluppa vere e proprie psicopatologie post-traumatiche: depressione, ansia e, soprattutto, disturbo da stress post-traumatico (Ptsd). In questi casi, il rischio di suicidio aumenta drasticamente. Nel caso del festival Nova, l’elemento peculiare è che molti sopravvissuti hanno vissuto l’evento in uno stato alterato di coscienza: durante la festa avevano assunto sostanze come Mdma, Lsd, funghi allucinogeni o cannabis. Questo ha aggiunto complessità e imprevedibilità alla loro esperienza traumatica.
Come vi siete presi cura di loro e come avete avviato il percorso terapeutico?
Il punto di partenza di SafeHeart, l’organizzazione che abbiamo fondato proprio il 7 ottobre, è stato il fatto che tutti noi proveniamo dallo stesso mondo dei sopravvissuti: frequentiamo festival di musica elettronica, conosciamo l’ambiente e molti di noi si occupano di ‘harm reduction’, ossia di interventi di riduzione del danno psicologico durante eventi di massa. Da subito abbiamo capito che la cosa più importante era intervenire tempestivamente: prima si parla del trauma, minore è il rischio di sviluppare uno stress post-traumatico. Già il 7 ottobre abbiamo messo in contatto psicologi volontari con i sopravvissuti nelle loro stesse città. Erano professionisti capaci non solo di trattare il trauma, ma anche di comprendere cosa significa vivere un’esperienza estrema in stato alterato di coscienza. Questo ha permesso alle persone di sentirsi accolte e non giudicate. In due anni abbiamo seguito oltre 2.000 persone e oggi più di 1.000 sono ancora in trattamento a lungo termine.
Quanto dura il percorso di guarigione?
Il primo anno è cruciale, soprattutto i primi sei mesi. Se dopo un anno i sintomi restano forti, spesso diventano cronici e difficili da trattare. In Israele il contesto ha reso tutto più complicato: fino a ieri, quando la guerra è finita e gli ostaggi sono tornati, non si poteva parlare di guarigione, perché mancavano le condizioni minime di sicurezza.
La prima tappa del processo di cura è sentirsi al sicuro.
Quali differenze esistono tra il trauma dei sopravvissuti al massacro e quello degli ostaggi?
Si tratta di esperienze profondamente diverse. Chi è sopravvissuto alla strage ha vissuto un trauma intensissimo ma circoscritto nel tempo: dodici, quindici ore al massimo. Gli ostaggi, invece, sono rimasti per mesi o anni nei tunnel, dipendendo dai loro carcerieri per cibo e sicurezza, senza sapere cosa sarebbe accaduto. È un tipo di trauma completamente diverso, che richiede competenze specifiche.
Qual è il ruolo della famiglia nel percorso di guarigione?
È fondamentale. La presenza di una rete affettiva solida è uno dei principali fattori di resilienza: avere qualcuno di cui fidarsi, a cui aggrapparsi, con cui condividere il dolore è essenziale. Molti sopravvissuti sono tornati a vivere con i genitori, incapaci di stare da soli. Ma anche le famiglie hanno bisogno di supporto: devono imparare come aiutare, quando spingere e quando essere più delicate. Per questo lavoriamo anche con loro.
Possiamo parlare di un unico trauma collettivo, nazionale, che accomuna sopravvissuti, ostaggi e altre vittime?
Tutti hanno vissuto un trauma, ma di natura diversa.
Oltre ai sopravvissuti del festival, ci sono quelli dei kibbutz, dei villaggi bombardati, i militari, e anche i palestinesi, il cui trauma è altrettanto devastante.
Se il trauma non viene curato, le conseguenze a lungo termine possono essere gravissime: a livello familiare, sociale e persino nazionale.
Quale futuro per queste persone?
Spero che ora, con la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi, possano iniziare davvero a guarire. Ma questo dipenderà anche dalla capacità dello Stato e della società di garantire loro le condizioni necessarie: personale qualificato, psicologi e psichiatri, politiche inclusive.
Molti di loro riescono a lavorare solo alcuni giorni, altri no: dobbiamo accettarlo e accompagnarli con compassione.
Quali misure ha introdotto lo Stato israeliano per aiutarli?
Il governo ha creato programmi di sostegno, finanziando anche SafeHeart e le famiglie coinvolte. Abbiamo ricevuto contributi pubblici e filantropici. Eppure, nonostante gli sforzi, non possiamo salvare tutti: questa settimana uno dei sopravvissuti si è tolto la vita. È un dolore immenso vedere giovani pieni di potenzialità perdere ogni speranza.
Ci sono dati sui suicidi dopo il 7 ottobre?
Non abbiamo statistiche precise, ma sappiamo di due suicidi tra i sopravvissuti, uno pochi giorni fa e uno qualche mese fa, e anche di alcuni genitori di vittime o sopravvissuti che si sono tolti la vita. La mia missione, in questi due anni, è stata e rimane una sola: fare in modo che queste persone possano sopravvivere, continuare a vivere e, se possibile, ritrovare un’esistenza piena e significativa.