Fatti
“Ora che la guerra è finita, dobbiamo concentrarci sulla pace e sulla riconciliazione con i nostri vicini, con noi stessi e all’interno della società israeliana”: lo ha detto l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Yaron Sideman, lo scorso 23 ottobre, durante la commemorazione del 7 ottobre 2023, svoltasi a Roma presso il centro ebraico “Il Pitigliani” per iniziativa della stessa ambasciata.
Parole condivise dai due relatori della serata, Omer Egozi, dell’Israel Trauma Coalition (Itc), impegnato nello sviluppo di nuovi modelli per la costruzione della pace post-conflitto e dalla psicologa clinica, Ayelet Cohen Vider, che dirige l’Unità di Salute Mentale della Meuhedet Health Foundation e coordinatrice dei programmi dedicati ai sopravvissuti a esperienze estreme. A margine dell’evento il Sir ha intervistato i due relatori.
Dopo il 7 ottobre molti hanno parlato della ‘fine delle illusioni’ sul processo di pace. Voi che da anni vi dedicate a costruire modelli di dialogo e di riconciliazione, che ricordo avete di quel giorno?
Egozi. È stato un giorno impegnativo, molto impegnativo, è stato il giorno in cui tutto è cambiato. La guerra è finita, ma ora dobbiamo affrontare il futuro, il processo di dialogo e di pace. Ho sempre sostenuto il dialogo e per questo dico che ciò che è accaduto il 7 ottobre 2023 stato devastante. Le persone che vivevano vicino a Gaza – direi il 90% di loro – erano sostenitori della pace. Spesso portavano i palestinesi di Gaza negli ospedali israeliani, li accompagnavano di persona. Due giorni dopo l’attacco, quando 60mila persone erano state evacuate dalla zona di confine, ho incontrato una donna, molto impegnata nel dialogo, una vera attivista per la pace. L’ho sentita dire a qualcuno: “Sono arrabbiata perché i palestinesi hanno distrutto ciò in cui credevo”. Hanno distrutto l’ideale per cui aveva sempre lottato. Tutto ciò in cui credeva. E quando affronti una frattura così profonda, serve tempo per guarire. Credo che questo rifletta il sentimento di molti che fino al 7 ottobre erano sostenitori della pace.
Oggi nessuno parla più di pace, se non in modo astratto. Nessuno parla di dialogo. Penso che servirà moltissimo tempo prima che la società israeliana possa guarire. Il danno è enorme, la distruzione è profonda.
Forse da lontano è difficile da vedere, ma in Israele è una tragedia serissima. E anche per i palestinesi lo è perché, se prima c’erano tentativi di dialogo, ora non li vedo possibili per almeno i prossimi dieci anni.
Cohen Vider. Quanto accaduto ha distrutto la fiducia e la fede. Prima del 7 ottobre lavoravo con colleghi di Gaza, professionisti, psicologi e operatori sanitari. Nel mio telefono ho ancora messaggi risalenti al maggio 2023. Oggi non possiamo più parlarci. Sono preoccupata per loro, ma la connessione si è spezzata.
È crollato il ponte che avevamo costruito.
E non solo noi: molti cittadini che vivevano attorno a Gaza non erano solo sostenitori del processo di pace, erano attivisti. Una delle donne uccise, Vivian, era tra le leader di quel percorso. La sua morte non è stata solo una perdita reale, ma anche un simbolo di ciò che abbiamo perso.
Oggi, dopo un trauma così profondo, quali sono i primi passi per avviare un processo di riconciliazione possibile e sostenibile? Come si può ricostruire la fiducia tra le due società e dentro le due società?
Cohen Vider. È l’obiettivo su cui lavoriamo dall’8 ottobre, dal giorno dopo l’attacco. Dobbiamo trovare risorse di speranza, di fede, che superino la realtà. Io, i miei collaboratori e i miei allievi cerchiamo testi che ci rafforzino, scritti di persone che in momenti terribili della storia hanno saputo credere e sperare ancora. Come Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta nella Shoah, che nel suo diario scrive parole di luce nel buio. O Rosa Luxemburg, le cui lettere dal carcere esprimono una fede profonda nella dignità umana. O ancora Lea Goldberg, una grande poetessa israeliana: spiego le sue lettere in sinagoga e durante la formazione dei terapeuti, perché contengono parole e radici di speranza. Lavoriamo per ricostruire fede e fiducia: è la nostra identità, è ciò che siamo.
Egozi. Il 6 ottobre, il giorno prima dell’attacco, la società israeliana era già attraversata da una crisi di fiducia. Il Paese era diviso in due a causa delle proteste contro il governo. Alcuni dicono che proprio questa spaccatura interna abbia contribuito a rendere possibile l’attacco. Poi il 7 ottobre ha aggiunto un nuovo livello di sfiducia: tra i civili e il governo, tra i civili e l’esercito.
Prima ancora di parlare di fiducia tra israeliani e palestinesi, dobbiamo ricostruire la fiducia dentro la nostra stessa società. Non possiamo fare un passo verso l’altro finché non ricomponiamo le ferite interne. Sarà un processo lungo, lunghissimo.
Cohen Vider. Vorrei aggiungere un mio ricordo, quello di un uomo molto anziano, uno degli ostaggi liberati, che tornando al suo kibbutz ha scritto una lettera: “Torno a casa e getterò di nuovo i semi nella terra”. Da loro, dagli ostaggi tornati vivi, ho imparato che i miracoli accadono. Non credevo che li avremmo rivisti camminare sulle proprie gambe. Esistono cose che non sono razionali nella nostra esistenza.
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La domanda è: che cosa scegliamo di coltivare, l’odio, la paura o la speranza? La guerra o la ricostruzione?
La componente cristiana può essere un ponte tra ebraismo e islam e dunque uno strumento per ricostruire la fiducia?
Cohen Vider. Credo che il dialogo interreligioso sia la via. Credo che i cristiani possono avere un ruolo straordinariamente potente in questo conflitto. Quando ci sono due parti in conflitto, una terza può essere decisiva.
Egozi. Se si guarda al conflitto da una prospettiva religiosa, si assume un punto di vista diverso, meno ideologico e più umano. Il dialogo interreligioso è condotto da persone che non sono politici, e per questo è più autentico. C’è meno interesse personale e più verità. E poi, quando persone religiose dialogano tra loro, condividono la fede nello stesso Dio: questo è già un terreno comune.
Con il 7 ottobre una nuova ‘memoria’ va ad aggiungersi a quella della Shoah. Ai sopravvissuti testimoni diretti della Shoah adesso si uniscono quelli del 7 ottobre…
Egozi. Credo che i due fatti non possano essere messi a confronto, qualcuno li paragona, ma sono diversi. La Shoah è il fondamento della nostra unità. Nel 1945 non avevamo uno Stato, non avevamo un esercito: è totalmente diverso. Certamente le immagini degli ostaggi ridotti alla fame, privati di tutto per due anni, associate a quelle delle vittime dell’Olocausto hanno risvegliato il senso di vulnerabilità. Ma ripeto, è un’altra realtà. Non possiamo sovrapporle.
Cohen Vider. Anche io penso che non siano paragonabili. All’inizio della guerra, una mia paziente mi disse che le persone cercavano di incoraggiarla dicendole: “Pensa alla Shoah”. Ma lei rispose che quel paragone la feriva. Ci è voluto tempo per capire che ciò che stiamo vivendo è qualcosa di immenso, tragico, ma anche trasformativo. Mia madre diceva che ci mostra appena una frazione dell’esperienza dell’Olocausto: del male, dell’umiliazione, dell’impotenza.
Dopo il 7 ottobre, c’è ancora spazio per la soluzione due Popoli, due Stati?
Egozi. Sulla soluzione dei due Stati, credo che si debba essere pragmatici. Si tratta di una soluzione che non è più nemmeno emotivamente disponibile. Personalmente, non vorrei vivere in uno Stato in cui i palestinesi facciano parte di Israele, perché, a livello demografico, cambierebbe la natura del nostro Paese. Israele deve restare lo Stato del popolo ebraico: non è una questione politica, ma identitaria.
Qual è il ruolo delle giovani generazioni nel processo di ricostruzione della fiducia?
Egozi. Quanto ai giovani, penso che sia una questione di leadership. La nuova generazione non è ancora leader, anche se ha avuto un ruolo straordinario negli eventi di ottobre. Hanno saputo reagire, sopravvivere, restare umani. Noi genitori abbiamo educato i nostri figli a certi valori e non sapevamo se avrebbero resistito nella prova. Ma hanno resistito. Mio figlio è un soldato, un soldato combattente. Gli dico sempre: ‘Ricorda che anche dall’altra parte ci sono esseri umani’. È difficilissimo. In guerra è più facile disumanizzare il nemico. Ma chi mantiene umanità anche in guerra incarna il valore più alto.
Cohen Vider. È vero, ci sono tanti casi di soldati che non hanno voluto sparare su bambini o anziani, anche a rischio della propria vita. I giovani hanno dimostrato di saper mostrare leadership nelle proteste e nei movimenti civili. A Gerusalemme, durante le manifestazioni, hanno portato una voce nuova, originale, capace di proporre convivenza. E voglio raccontare un episodio. Durante la guerra, mentre i miei figli erano soldati a Gaza, andammo a un concerto: erano canzoni d’amore, in ebraico e in arabo. Gli artisti cantavano le stesse canzoni, ciascuno nella lingua dell’altro. Era alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme, sotto il cielo. È stato un momento di bellezza e verità. Uscendo, tutti, arabi ed ebrei, ci siamo detti: “È così facile convivere. È così facile”.