Il vero miracolo compiuto nei secoli da Antonio – sostiene il sociologo Enzo Pace, che ha scritto La città del Santo – è stato riuscire a costruire uno stabile compromesso attorno alla sua figura tra la sfera religiosa e quella civile, come punto di riferimento per i credenti e simbolo della religione civile.Iscriviti gratuitamente al sito per leggere l'articolo.
C’è chi, e non a torto, vorrebbe fare di Padova la città di Giotto, la capitale dell’affresco trecentesco, oppure la città di Galileo e della scienza moderna. Ora anche Donatello rivendica una significativa presenza, anche se lasciò detto di non aver nessuna intenzione di morire “in mezzo alle ranocchie”.
Ma in tutto il mondo Padova è anzitutto La città del Santo, come dichiara fin dal titolo il libro di Enzo Pace uscito nella collana del Poligrafo “Ottonovecento a Padova. Profili, ambienti, istituzioni”, diretta da Mario Isnenghi (pp 116, euro 18,00). «Antonio – spiega il sociologo abruzzese, ormai da tempo divenuto cittadino padovano – è parte dell’identità non solo religiosa della città. Un vero miracolo compiuto da Antonio è stato quello di riuscire a costruire uno stabile compromesso, attorno alla sua figura, tra la sfera religiosa e la sfera civile, come punto di equilibrio nel difficile rapporto tra chiesa cattolica e potere politico-amministrativo. Dal medioevo fino a oggi, il Santo è stato, in fondo, non soltanto un punto di riferimento per i credenti, una figura universalmente nota e venerata, ma il simbolo stesso della religione civile dei padovani».
Il Santo, spiega ancora Enzo Pace, «è il prodotto di un lungo processo storico caratterizzato da alti e bassi, da conflitti e tensioni fra l’anima laica e quella più clericale della città, fra la cultura scientifica che si è andata affermando entro e fuori le mura dell’università patavina e le istanze di conservatorismo sociale che una parte del mondo cattolico padovano ha interpretato, guardando alla pietà popolare che non ha conosciuto arretramenti, un efficace antidoto agli stili di vita propri di una società secolarizzata».
Per spiegare il rapporto tra il Santo e la città, guardando agli atteggiamenti delle persone che la abitano, «magari raggruppati per ceti, gruppi di interesse, schieramenti politici e diversità interne al cattolicesimo», il sociologo parte dalla sua esperienza personale, di osservatore esterno, e da un episodio particolare come l’ostensione delle spoglie del Santo nel 2010, che ha coinvolto 200 mila persone ed è stata oggetto di un’indagine condotta da Alessandro Castegnaro per conto del Messaggero. Dai dati emerge che «l’interesse per un’esperienza del sacro, in prima persona e in presa diretta, coinvolge persone di diversi strati sociali, con gradi di acculturazione che vanno dalla licenza elementare alla laurea». E coinvolge proprio persone di buon livello culturale che scoprono antiche vie di pellegrinaggio o foresterie di monasteri «non tanto per coerenza con un’identità religiosa precisa, quanto piuttosto per una ricerca di spiritualità de-istituzionalizzata e fatta su misura delle aspettative intellettuali e interiori di un individuo moderno, che sceglie se credere, come credere e sino a che punto».
Il capitolo finale del volume, forse il più scontato per chi conosce il radicamento della presenza antoniana sul territorio, è dedicato alle opere che portano il nome di Antonio e si rifanno al suo insegnamento spirituale e caritativo, dal Pane dei poveri all’Opsa, dal Cammino di Sant’Antonio alla maratona omonima.
