Idee
“Sono un docente, e dopo vent’anni di carriera spesi a dare (e a sopportare) tutto per amore di ciò che amo… ho capito che vorrei cambiare lavoro. Perché? Semplice: perché la scuola di oggi chiede figure di ogni tipo tranne che insegnanti. Dunque nella scuola di oggi non c’è più spazio per me e per tutti quelli che pensano ancora che il compito principale della scuola dovrebbe essere quello di insegnare”.
Comincia così la lettera pubblicata sul Corriere della Sera di alcuni giorni fa, scritta da Marco Radaelli, 45 anni, professore di Storia e Filosofia in un Liceo Scientifico di Pavia,
Si tratta di una vera e propria denuncia, amara, della delusione di chi concepisce l’insegnamento in modo preciso, come lo stesso Redaelli dichiara al termine della sua missiva: “La scuola è stata inondata di proposte, corsi e progetti che l’hanno affossata, snaturandola dal suo vero e unico compito, che è quello di istruire, insegnare ed educare attraverso le discipline”.
Insegnare, dunque, cosa significa? Trasmettere conoscenza e favorire apprendimenti significativi, certi che in questo processo avvenga il “miracolo” della crescita personale di autonomia e responsabilità da parte degli allievi, che piano piano vengono avviati ad essere protagonisti della propria esistenza.
In effetti, il disagio manifestato da Redaelli è di molti insegnanti. Lo conferma con parole chiare una nota sull’autorevole rivista specializzata Orizzonte scuola, che riprende le considerazioni della lettera al Corriere. “Chi ha scelto questo mestiere per insegnare, si trova a fare altro. Non occasionalmente, ma come prassi quotidiana”. Là dove si racconta come l’insegnante lo si vuole “psicologo, psichiatra, psicoterapeuta, informatico, ingegnere, pedagogista” e in certi casi “saltimbanco capace di rendere accattivante ogni lezione, o giullare in grado di accattivarsi la simpatia e la benevolenza degli studenti con effetti speciali e numeri da circo“, la chiosa è tranciante: “Non è un paradosso. È la fotografia di un malessere diffuso”. Con il risultato di ”una tensione interna, non sempre visibile dall’esterno, ma che incide in profondità. Crescono i casi di stress lavoro-correlato, aumentano le richieste di trasferimento, si moltiplicano le lettere di dimissioni anticipate, anche in assenza di alternative concrete. Non è una fuga dalla fatica, ma dalla marginalità: quella di un ruolo ridotto a funzione ausiliaria dentro un sistema che sembra aver dimenticato la propria missione”.
Occorre prendere atto di tutto questo, sia pure, certamente, nel contesto tanto declamato della scuola inclusiva e accogliente che non può essere una giustificazione alla deriva che porta a snaturare la consistenza del mondo scolastico.
E qui vale la pena di riflettere sulle ultime note di Redaelli: “È ora di allargare il recinto della responsabilità e di prendere coscienza che ad educare non sono solamente gli insegnanti, ma è tutto un contesto in cui la scuola è certamente chiamata a dare il proprio contributo – per quel che compete a lei – esattamente come tutti sono chiamati a dare il proprio. Per dirla con le parole di un proverbio: Per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero”.
Non si può chiedere alla scuola quello che non è, semplicemente perché la famiglia latita e le altre agenzie educative fanno fatica.
All’inizio del nuovo anno scolastico è una buona provocazione.