Idee | Lettera.DSolo accettando la precarietà della nostra vita siamo in grado di riconoscerne la preziosità. Così l’educazione alla mortalità insegna la pace
Mi sono chiesta quale parola sensata potessi dire per il tempo complesso che stiamo attraversando, un tempo che fa soffrire, che certamente anela a un cambiamento, ma su più livelli, nessuno escluso. Propongo quindi di riflettere su quello che ritengo essere il livello più profondo e più autentico di ogni cambiamento: quello interiore, che riguarda la visione della vita, l’atteggiamento, la prospettiva, lo sguardo con cui ci poniamo dinanzi a essa e che, come da tempo le neuroscienze confermano, incide su sentimenti, pensieri, decisioni, comportamenti, anche se spesso non ne siamo consapevoli. I media non fanno altro che propinare notizie e immagini di morte e vorrei partire proprio da ciò che ancora oggi è considerato una sorta di tabù: il nostro essere mortali. O, se volete, il fatto che non siamo immortali, che, prima o poi, moriremo, che moriranno le persone a noi care. Non ci si pensa mai, soprattutto quando si sta bene, e tutt’al più il morire riguarda gli altri. Ma, come insegnano tutte le filosofie sin dall’antichità, «per imparare a vivere occorre imparare a morire» (Seneca). Solo rendendosi conto del carattere di fragilità e precarietà del nostro vivere, possiamo infatti immergerci in maniera sapienziale nel presente e orientarci verso un orizzonte di valori che rendano prezioso il nostro esserci. Eventi traumatici e catastrofici, come la pandemia e la guerra, ci mettono con crudezza di fronte alla condizione di finitudine dell’essere umano; non essendo preparati, specie nella nostra civiltà occidentale, a «contare i nostri giorni» (Salmo 90), molte persone sviluppano disagi depressivi, altre rimangono dentro una logica di tipo “bellico”, con eroi e vittime, carnefici e vincitori, ma senza arrivare mai davvero a prendere consapevolezza del fatto che la morte fa parte del ciclo della vita, e non va appena negata o patita, ma accolta. Dimenticare la mortalità è dare la vita per scontata e quindi inseguire il miraggio della gratificazione compulsiva. Se, invece, siamo disposti a toccare con mano il suo carattere precario, ci accorgiamo della sua preziosità: questo rimette tutto in prospettiva, ci incoraggia a vivere ogni attimo, a non sprecare il tempo, a non procrastinare, a fare delle scelte di valore, a non fissarci ostinatamente sulle nostre opinioni, a prenderci un po’ meno sul serio, a lasciar andare più facilmente, a far spazio agli altri, a tollerarne le mancanze, esprimere gratitudine, a perdonare, a essere gentili. A costruire un mondo di pace. Ecco il pensiero forte: per costruire la pace occorre integrare il limite umano, l’incompiutezza, la mortalità, cominciando da noi stessi, facendo attenzione a quale linguaggio e quali metafore usiamo per esprimere la morte (Hegel la chiamava «il fiore nero», San Paolo «l’ultimo nemico», san Francesco «sorella»).
La morte come “limite” e come “oltre” in tutti i campi dello scibile umano è in grado di rendere critici tutti i saperi e di influenzarli con la “saggezza” della sua insolubilità. Insieme è occasione di ricerca di senso, di possibile apertura a un orizzonte di speranza che vada oltre la parabola biologica di ciascuno. Questo per ciascuno può configurarsi diversamente, a seconda dei percorsi individuali, ma fa riferimento a quella “spiritualità” originaria, quella tensione intima alla trascendenza che è in ognuno di noi, dal momento in cui, di fronte allo stupore di esserci, ci si chiede: chi sono, da dove vengo, dove vado, perché sono qui? L’educazione al fatto che siamo mortali, e quindi al limite, alla finitudine, si inscrive all’interno di una visione della vita che ha da cominciare sin dall’infanzia, pena l’insorgeredi tante patologie narcisistiche. Gli adolescenti, per esempio, spesso attuano comportamenti rischiosi di illusoria onnipotenza, perché in fondo sono alla ricerca del limite. Il tema del morire e dell’orizzonte di speranza interessa l’intero ciclo della vita e, pur toccando aspetti delicati quali il lutto, l’accompagnamento al morente e ai suoi familiari, o le derive più drammatiche come le condotte suicidarie, le guerre, esso si pone primariamente come un’educazione al vivere. Ritrovare il senso della mortalità, accomuna tutti gli umani nella domanda di senso e nel desiderio del bene, aiuta a vivere tutte le piccole morti di cui è costellata la vita (cambiamenti, dolori, perdite) e a ritrovare la preziosità del nostro vivere. In una parola: a coltivare la pace.
