Provate voi, oggi, a trovare una persona capace di batervi ea falsa. I più non capirebbero nemmeno la questione, essendo lo strumento in disuso da ormai un decennio. Parliamo di quella falsa, che s’imparava a usare fin da ragazzini, osservando ciò che facevano i padri e nonni quando sfalciavano l’erba o il grano nei campi. Oggi è raro vedere qualcuno che continua a farlo a mano. Se c’è, è confinato negli alpeggi o negli anfratti dove i mezzi meccanici non arrivano. Il resto è tutta memoria, anche se qualche retaggio quotidiano sopravvive nel linguaggio popolare, quando si sente dire: «Te bato come na falsa!», che prende spunto dall’antica pratica, per esprimere un concetto coercitivo ancora chiaro a molti. Di fatto non c’è più chi bate na falsa! È bastato avere bisogno un giorno di batere e gusare come stì ani la lama da taglio di una vecchia falce, per farci comprendere che eravamo a un passo dall’impresa. Peggio che trovare un falegname o idraulico, dove tutti ricordano, ma nessuno sa più fare quanto ti serve. È servito un passaparola di svariati giorni, prima che qualcuno ci dicesse: «Va da Zilio che el ga la piantoea par batere ea falsa». Mentre i più ci rispondevano: «Sono anni che non lo faccio più!». Arnaldo Zilio è di quei contadini veraci che – nato a Villafranca nel Padovano, spostatosi a Montegaldella a 34 anni dopo essersi sposato con Marilena Nardin – qui ancora risiede in una delle storiche borgate del paese, dove ha la propria azienda familiare. A 86 anni suonati, Arnaldo non ha perso la passione per i campi e gli animali, come pure la manualità e l’esperienza dei contadini di un tempo. È sorpreso quando gli chiediamo se può affilarci la falce: «Gusarla o baterla?» ci chiede lui. La domanda ci mette subito in crisi, costringendoci a rispondergli: «Basta che tagli!». «Vabbè, portatemi la falce, ci penso io!» aggiunge Arnaldo, che poi ammette di non usarla più da anni, ma di essere ancora in grado di praticare quanto ha imparato da suo fratello Raffaello, quando aveva sei anni. «Allora andavamo, piccoli e grandi, per il fieno o il grano con la falce nei campi. Inizialmente, la falsa era di legno, poi con la modernizzazione degli anni Sessanta è diventata di ferro». Sembra facile vedendolo fare: «Invece è roba da maestri – precisa lui – perché si deve avere esperienza, per evitare errori che fanno buttare via la lama». Peccato solo che oggi non si trovi più chi affila le poche falci rimaste: «Perché c’è ancora qualcuno che ne fa uso? – si chiede Arnaldo – Ho un’età che mi ha portato a vedere l’intera evoluzione agricola dal dopoguerra a oggi, passando dalla falce di legno, alla “falsatrice” e da lì alla “biciesse” meccanica, per arrivare ai decespugliatori e robot da giardino di oggi». Usare la falsa era l’immagine del contadino di sempre. Fine quindi di un’epoca? «Ovvio!» è la risposta univoca del contadino. Ma soprattutto fine di un “rito” che si tramandava di padre in figlio: «Da molti anni invece nessuno più spera di trasmettere ai propri figli queste antiche abitudini. Oggi a malapena i giovani sanno tenere in mano un badile. Figuriamoci nà falsa». Mentre ci parla, di fondo ci sono i rumori lasciati dal martello che intanto batte la lama. C’è del ritmo nei suoi movimenti: «Serve esperienza per fare questo, perché se batti troppo forte rischi di far crepare il metallo, e devi buttare via tutto. Non puoi imparare dalle parole quello che invece devi capire con gli occhi! Posso anche spiegarvelo, ma sono gli occhi che ti portano a comprendere questi gesti…». Gesti che erano parte del bagaglio del contadino che grazie alla falce assolveva sotto il solleone, al duro lavoro dei campi. «Oggi – conclude Arnaldo Zilio – quando vedo la me vecia falsa arrugginita, giacere in un angolo dell’officina agricola, penso a quel passato con un pizzico di rimpianto. Anche se poi, mettendo in moto un decespugliatore, non provo alcun rimpianto per la tanta fatica che hanno compiuto intere generazioni di agricoltori di cui mi sento ancora parte».
«Quello che abbiamo ereditato dalla nostra storia – spiega Arnaldo Zilio, abile falciatore – è l’impiego della piantoea, il ceppo su cui è inserito il puntale dove con un martello particolare viene battuta la lama per portarla a spessore, togliendogli ogni sbavatura, così da renderla affilata come un coltello gigante». Per affilare la lama, invece, «serve come sempre ea piera conservata nel coaro (corno di vacca) e portata con una cintura ai fianchi».
Batere e gusare in termini tecnici contadini non vuol dire e fare la medesima cosa. La prima significa battere la lama con martello per assottigliare e livellarla, con colpi calibrati che necessitano esperienza. Gusare, invece, è l’affilare con la pietra la lama così da essere più tagliente nello sfalcio. Le due cose sono collegate, con la differenza che per baterla serve capacità e pratica. Per lo sfalcio, invece, basta avere forza, pazienza e volontà. La tradizione faceva così da ponte tra le generazioni, tanto che i bambini di allora guardavano i padri sfalciare l’erba, apprendendone tecnica e abilità. Oggi nessuno dei più piccoli sa di cosa stiamo parlando, perché non vedono più nessuno tagliare l’erba a mano. Sostituiti tutti dai taglierba e prima ancora dalle “biciesse”, uno dei segni tecnologici di una nuova era, che ha annientato in pochi anni, ciò che per secoli sono stati i nostri contadini.
La falce è “figura” di un tempo, tanto comune allora e tanto sconosciuta oggi, se non per qualche colorito modo di dire – tagliente quanto la falce stessa – che, nonostante tutto, resta saldamente in mano all’allegoria della morte, che la ritrae nell’intento di “falciare” gli uomini.