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Le vinacce, una ricchezza che non si butta
Come per il maiale, anche dell’uva non si spreca nulla. Bucce, raspi e vinaccioli sono da sempre usati nei campi o in cucina
MosaicoCome per il maiale, anche dell’uva non si spreca nulla. Bucce, raspi e vinaccioli sono da sempre usati nei campi o in cucina
È un periodo di intensa vendemmia, in campagna si possono vedere rimorchi carichi d’uva. Sappiamo dove andrà: in cantina, per dare vita al vino. Ma… che cosa ne sarà delle vinacce, ovvero le bucce e i vinaccioli degli acini, residuo della produzione del vino? Dell’uva non si butta via nulla: tanti sono gli usi che, nei secoli per tradizione e oggi per innovazione, ne sono stati fatti, dalla concimazione alla distillazione, dalla cosmesi alla produzione di biocarburanti. Per prima cosa è utile sapere che vi sono vinacce definite in gergo “vergini”, ovvero quelle delle uve bianche che stanno pochissimo a contatto con il mosto, e quelle che vi stanno più tempo e subiscono la fermentazione, totale o parziale, come le uve rosse. Per la produzione di grappa servono proprio vinacce fermentate: quelle che non lo sono, verranno fermentate poi. Storicamente le vinacce sono state impiegate come ammendante per la coltivazione, mentre essiccate con i raspi fungevano da combustibile; potevano anche essere date da mangiare agli animali. Tutto questo si fa anche oggi. Del tutto scomparsa, invece, è la tradizione di ricavarne la graspìa, detta “il vino dei contadini”, il cui nome viene da graspi, l’appellativo veneto per le vinacce. «Ricordo che, quando ero piccolo – racconta Giorgio Salvan dell’omonima cantina di Due Carrare, di fronte al Catajo – c’era ancora qualche famiglia che la faceva. Travasato il vino, nelle vinacce rimaneva ancora una parte di succo. Le famiglie rurali, sempre in lotta per la sopravvivenza, il vino buono lo vendevano o lo riservavano ai paroni o per i giorni di festa». Ecco che le vinacce erano una benedizione, la base per una bevanda, la graspìa appunto. «La si faceva versando acqua calda per farla macerare sulle vinacce, pressate da dei sassi, dentro dei caratelli stretti. Poi ci mettevano dei limoni, tagliati a metà, per conservarli e dargli acidità. A volte si riavviava anche una leggera fermentazione. Ne usciva un liquido di grado alcolico molto basso, annacquato, che veniva bevuto nella quotidianità da tutta la famiglia, anche i bambini. Era un lavaggio di vinacce esauste che si ripeteva fino all’esaurimento. Oggi che il vino non manca, se proprio si vuole rifare la graspìa, basta allungare il vino con l’acqua e si ha un aperitivo migliore». Con la graspìa si facevano anche le conserve: retaggio di un’antica tradizione sono oggi le Composte di Montorso, prodotto De.Co, ottenute macerando le verze con la graspìa per ottenere un prodotto acidulo, contorno perfetto per le carni di maiale. Un altro uso alimentare da non dimenticare è quello di cospargere il formaggio da stagionare con le vinacce, soprattutto rosse: è il cosiddetto formajo imbriago. Ci sono poi altri usi non alimentari, più recenti, come la produzione di etanolo, anche per i biocarburanti. Dai vinaccioli si ricava invece un olio ricco di acido linoleico, apprezzato in cucina e nella cosmesi.