Idee
Tanti libri in questi anni hanno cercato di descrivere come il digitale abbia stravolto il mondo rendendo possibile ciò che era impossibile e allo stesso tempo facendo venire meno sotto ai piedi la terra di tante sicurezze, prassi condivise e di intere reti sociali. Il pregio del libro Macchine celibi-Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo?, ultima fatica di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, edita da Il Mulino, è quello di non abbandonarsi al pessimismo, ma di offrire strade di speranza per un umanesimo dell’era digitale composte di ragione e di legami sociali.
L’immagine che dà il titolo al libro, l’opera d’arte surrealista “Il grande vetro” di Marcel Duchamp, nota anche come “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli”, è il destino dal quale dobbiamo scappare. E c’è ancora tempo.
«“Il grande vetro” – spiega Mauro Magatti – riprende la struttura delle opere rinascimentali: nella parte inferiore ci sono i pistoni, che rappresentano individui isolati, soprattutto maschi, che si muovono in continuazione, sempre più in fretta, senza uno scopo preciso. Nella parte superiore non c’è più Dio, ma la sposa: un desiderio indistinto, irraggiungibile. Questa separazione tra la macchina che efficientizza e un immaginario surrealista sganciato da tutto e da tutti ci sembra una rappresentazione efficace del mondo costruito dalla digitalizzazione: massimo dell’efficienza in ogni ambito – non solo fabbrica, ma sport, mobilità, sesso, relazioni – e insieme massimo caos dal punto di vista simbolico e comunicativo».
Nel libro parlate di un duplice movimento: da una parte siamo sempre più individualizzati, quindi più soli; dall’altra sempre più omologati, “fatti con lo stampino”. Come lo spieghiamo?
«Usiamo l’immagine delle “macchine celibi” non per dire che siamo già macchine, ma per dire che è una tendenza, un destino da cui cercare di sottrarsi. La digitalizzazione ha effetti positivi e anche velenosi. Prima c’era la cultura individualista, soprattutto liberale; poi è arrivata l’individualizzazione delle vite, che la rete organizza e orienta ulteriormente».
Questa continua efficientizzazione – rappresentata anche dal calcolo ossessivo persino dei nostri passi quotidiani tenuto dagli smartphone – che effetti produce?
«Bisogna evitare due atteggiamenti opposti: la tecnofobia, la paura, il rifiuto, e il tecnoentusiasmo, l’idea che la tecnologia risolva tutto. Sono reazioni comprensibili, ma sbagliate. Il punto è fare insieme la fatica di capire: sviluppare gli aspetti positivi che le nuove tecnologie permettono, ma anche riconoscere i veleni che introducono. Nel dibattito pubblico invece prevale la contrapposizione tra chi è contro e chi è pro».
Da una parte l’Europa che regola – e che denuncia, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – le «nuove compagnie delle indie» dei giganti tech, dall’altra i protezionismi di Cina e Usa…
«È evidente la convergenza tra grandi interessi economici e interessi politici: in Cina è strutturale, ma anche l’Occidente va in quella direzione. Se scegliamo la strada del dominio e della supremazia tecnologica, sacrificheremo la democrazia. Perché quando metti insieme grandi interessi economici e potenza politica, la libertà individuale diventa sacrificabile».
Nel secondo capitolo parlate di odio e violenza. Come “disinnescare” le figure di riferimento del tecnopopulismo come Peter Thiel?
«L’odio e la violenza che vediamo – a livello internazionale, dentro le società, perfino nelle famiglie – sono figli di questa fase estrema della logica individualista. L’altro reale, concreto, viene espulso: evocato ma non mai accolto davvero. Così restiamo chiusi nel nostro io, come singoli e come stati, e perdiamo la capacità di comprensione, dialogo, perdono. Questo porta all’odio. Manca poi la capacità di intendersi su ciò che è comune. Si può dire tutto e il contrario di tutto, come fa Trump. Allora, come disinnescare? Bisogna dirlo chiaramente: la soluzione non c’è. Non c’è una ricetta. C’è da fare un percorso, un esodo collettivo. Creare le condizioni perché la digitalizzazione sia umana, non antiumana. Sarà un cammino lungo. Ma la direzione è affermare che il vivente non è la macchina. L’esperienza del vivente – solidarietà, amicizia, affezione, ricerca di senso – è ciò che protegge e rende possibile la vita umana. Se lasciamo alle macchine, che non sono vive, il compito di pensare per noi, finiremo per distruggerla».
Come si fa?
«Va recuperata anche la dimensione spirituale: esperienza del bello, dell’amore, del sublime. Questo richiede nuove forme sociali: ripensare scuola, arte, esperienza religiosa, tempi di vita. Non basta la regolamentazione. Senza nuove forme sociali, rischiamo di essere schiacciati da macchine potentissime, che possono fare meraviglie ma anche rivelarsi distruttive».
E i cristiani? Quale ruolo può avere la Chiesa, anche alla luce di una probabile enciclica di papa Leone XIV su questi temi?
«Siamo davvero davanti a rerum novarum, a cose nuove. La Chiesa è chiamata a riscoprire il vero significato dello Spirito, una parola che abbiamo quasi perso, anche dentro la Chiesa stessa. Senza spirito la modernità si perde e diventa distruttiva. Per questo la Chiesa, soprattutto in Occidente, ha una responsabilità molto grande. Speriamo sia all’altezza».