Idee
“Una volta sognai di essere una tartaruga gigante con scheletro d’avorio che trascinava bimbi e piccini e alghe e rifiuti e fiori e tutti si aggrappavano a me, sulla mia scorza dura. Ero una tartaruga che barcollava sotto il peso dell’amore molto lenta a capire e svelta a benedire. Così, figli miei, una volta vi hanno buttato nell’acqua e voi vi siete aggrappati al mio guscio e io vi ho portati in salvo perché questa testuggine marina è la terra che vi salva dalla morte dell’acqua”: sono i versi di “Una volta sognai”, la poesia dedicata a Lampedusa scritta da Alda Merini e letta alla vigilia dell’inaugurazione della Porta d’Europa (28 giugno 2008), il monumento di Mimmo Paladino dedicato ai migranti morti nel Mar Mediterraneo. Pietro Bartolo li cita a memoria, un modo tutto personale per rievocare la sua storia quotidiana di medico di Lampedusa, per oltre 25 anni responsabile delle prime visite ai migranti sbarcati sull’isola su barconi fatiscenti. L’incontro con Bartolo avviene a margine di un evento che si è svolto nei giorni scorsi a Subiaco (Rm), chiamato dai giovani della locale associazione “Subiaco letteraria” per parlare del suo libro “Lacrime di sale” (Mondadori, 2016), appuntamento inserito nel programma “Subiaco Capitale italiana del libro 2025”. Un volume denso di ricordi e di storie nel quale il medico cerca di ridare un nome, un volto e un’umanità a migliaia di corpi senza nome arrivati sull’isola.
Persone, non numeri. “Sono persone, non numeri – precisa subito il medico – persone alla ricerca di un futuro migliore e che sono morte nel mio mare Mediterraneo”. Si commuove quando rievoca i terribili momenti del naufragio del 3 ottobre 2013, quando 368 persone persero la vita proprio davanti alle coste di Lampedusa. Senza immaginare, allora, che altre tragedie avrebbero avuto esiti ancora peggiori: “Oggi a 12 anni di distanza il mio incubo è un bambino che stava nel primo sacco che ho aperto, ogni notte mi chiede in sogno perché non l’ho salvato. Mi sveglio con questa immagine, poi mi riaddormento ma torna di nuovo. Io faccio le ispezioni cadaveriche perché non restino dei numeri, ma i numeri li ho dovuti mettere, purtroppo, perché non sai chi sono, non hanno documenti.
Le ispezioni dei cadaveri servono per dare una identità a quelle persone, la dignità. Non ho mai amato fare le ispezioni dei cadaveri, ho sofferto tanto per farle, ma tanto. Io che avevo studiato ginecologia e ostetricia per dedicarmi della vita nascente mi sono ritrovato ad avere a che fare con la morte. A volte ho avuto paura, molte volte ho pianto, ho vomitato, però era giusto farlo e lo facevo proprio per dare dignità a queste persone perché non restassero solo dei numeri”. I morti come i vivi, perché, ricorda il medico, “coloro che vengono tratti in salvo, o che muoiono annegati o per le violenze e le torture subite dai trafficanti di esseri umani, hanno legami familiari come ciascuno di noi. E su di loro non può cadere l’oblio. Molti di noi che vivono in questa sponda del Mediterraneo possono pensare: ‘Vabbè, se sono morti nessuno li cerca’. Invece vengono i parenti a cercarli, genitori, figli, mogli e questo accade perché dietro questi numeri, dietro questi cadaveri ci sono delle storie di forti legami personali e familiari”.
Rischio dell’oblio. Al rischio di oblio Bartolo risponde con il racconto di queste storie, delle sofferenze, delle umiliazioni, delle torture, delle sevizie, delle violenze, degli abusi patiti nei lager della Libia e di altri Paesi da dove i migranti partono per affrontare veri e propri viaggi della speranza. Storie che riempiono le pagine dei suoi libri, del documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi (Orso d’oro a Berlino nel 2016) cui ha preso parte, del film Nour (2019) liberamente tratto dal suo libro “Lacrime di sal”. E sono storie che giacciono in fondo a quel mare dove Bartolo è nato, lui lampedusano, figlio di pescatori.
“Nel mio mare – dice con voce fioca – hanno perso la vita più di 50-60mila persone, che sono quelli di cui abbiamo contezza, ma saranno almeno il doppio, un genocidio, una mattanza che avviene nell’indifferenza generale”.
“Certo – aggiunge – ci indigniamo, piangiamo, se vediamo un bambino esanime tra le braccia di un soccorritore o riverso sulla spiaggia come avvenne per il piccolo Alan Kurdi, il 2 settembre di 10 anni fa. La sua foto scatenò l’indignazione a livello globale. Ma sono reazioni destinate a scemare in breve tempo. Poi ritorna l’indifferenza, come diceva Papa Francesco. Magari fosse solo indifferenza”, insiste Bartolo. “Purtroppo, c’è contrarietà, ostilità nei confronti di queste persone. C’è chi fa accordi con Paesi terzi (Turchia, Libia, Tunisia, Albania, ndr.) per poter, pagando fior di miliardi, far fare il lavoro sporco agli altri.
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Così mentre ci laviamo le mani, ci sporchiamo la coscienza.
E io di questa cosa sento tutta la responsabilità e la colpa perché conosco ciò che succede per averlo visto con i miei occhi”.
Il fallimento della politica. Un senso di impotenza sentito dal medico e amplificato anche dal suo impegno nel Parlamento europeo dove è stato eletto nel 2019, “ma senza incidere come avrei voluto”, riconosce Bartolo. “L’Europa sta sbagliando, e anche io ho sbagliato, perché continua a utilizzare un sistema inefficace, il cosiddetto regolamento di Dublino che è lo strumento che governa il fenomeno della migrazione. È un fallimento se dopo 30 anni si continua a parlare ancora di migrazione, di sbarchi, di morte, di problemi”.
“Ma non è con la deterrenza, con il rimpatrio, con il farli morire che puoi fermare queste persone”.
Per Bartolo “bisogna cambiare visione sulla migrazione e cominciare a capire che può rappresentare un’opportunità e una risorsa anche alla luce dei problemi demografici certificati solo pochi giorni fa dall’Istat. L’Europa è diventata una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale, ndr.), siamo tutti vecchi. I migranti ci possono aiutare dal punto di vista culturale, sociale, economico. Tra loro ci sono anche professionisti, artisti, musicisti, medici, ingegneri, persone preparate. E per chi non ha una preparazione serve pensare a corsi di formazione lavorativa e di apprendimento della lingua. Regolarizzarli, trattandoli con dignità – senza schiavizzarli come molti casi di cronaca, vedi Rosarno per esempio, hanno dimostrato – i migranti possono aiutarci a risolvere i nostri problemi. Noi non abbiamo più giovani che vanno a lavorare in settori come l’agricoltura, l’edilizia, l’alberghiero”.
“Queste persone devono arrivare attraverso i canali regolari. Invece, per mero riscontro elettorale, una certa politica crea il mostro, promettendo di ricacciarlo indietro”.
Il Dna dei pescatori. Intanto Lampedusa continua ad accogliere: “Lampedusa è la mia isola, ci sono nato. È un’isola di pescatori, un’isola di gente che ha sempre accolto, perché l’accoglienza è nel Dna dei pescatori. Spesso qualche giornalista mi chiede ‘Ma come mai, dottore, dopo 30 anni i lampedusani non si sono stancati, non hanno mai protestato?’ La risposta è facile: ‘Perché noi siamo un popolo di mare e tutto quello che viene dal mare è benvenuto’”.