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“Agaivé”. In Mozambico suona come una parola esotica la pronuncia dell’acronimo Hiv, ma la dolcezza della lingua non nasconde la tragicità dell’impatto che l’Aids sta avendo nel Paese dell’Africa australe. Con il 13 per cento di persone sieropositive su un totale di 34 milioni di abitanti, il Mozambico si piazza tra i primi posti nella classifica dei Paesi con il maggior numero di contagiati dal virus della sindrome dell’immunodeficienza acquisita. Ma l’incidenza della malattia è ancora maggiore nella provincia di Sofala (15 per cento) e in particolare nel distretto di Beira, dove il 19 per cento della popolazione (circa 150 mila persone su un totale di 800 mila abitanti) è sieropositiva. «Dal 2012 al 2015 sono stata direttrice clinica del centro di salute di Macurungo, dove ero l’unico medico. Una delle sfide più difficili che ho dovuto affrontare in quel periodo è stata la gestione del trattamento antiretrovirale in età pediatrica». La dott.ssa Sara Salomão, 40 anni, è nata e cresciuta a Beira. Dal 2015 lavora per la ong padovana Medici con l’Africa-Cuamm.
Dottoressa, quali erano le difficoltà maggiori?
«Oltre alla cronica mancanza di risorse materiali e umane, all’epoca essere sieropositivi comportava una dura stigmatizzazione. E se, per paura di questo giudizio, i genitori non iniziavano o non accettavano il trattamento, i bambini ne venivano danneggiati. A questo si aggiungevano il frequente deterioramento e la mancanza di medicinali. Dovevamo ingegnarci per somministrare ai bambini le dosi corrette, arrivando a spezzare le compresse. Inoltre, alcune approvazioni per il trattamento dovevano essere sottoposte al comitato nazionale che ha sede a Maputo, un processo lungo».
Quando ha deciso di diventare medico? Ha dovuto superare qualche difficoltà?
«Il mio sogno di diventare medico risale all’infanzia, volevo fare qualcosa legato alla salute. È un’inclinazione familiare: mia zia è infermiera e lo è stato anche il mio nonno materno. L’ostacolo più grande è stato andarmene da casa per studiare. Essendo la figlia più giovane, è stata una sfida trovare il tempo per le necessità personali e la rigorosa routine medica che inizia già da studenti con corsi, tirocini e notti insonni».
Perché ha deciso di lavorare per il Cuamm?
«La cosa che mi ha spinto è stata la convinzione di poter fare di più. Prima lavoravo solo in una specifica unità sanitaria. Con il Cuamm ho avuto l’opportunità di utilizzare ciò che avevo imparato per migliorare l’assistenza materno-infantile a livello di diverse unità sanitarie nel distretto di Beira. Mi piace poter vedere i problemi da una prospettiva più ampia e realizzare interventi specifici, sia a livello di unità sanitaria, sia nella comunità. Le difficoltà, come la mancanza di personale o di infrastrutture, richiedono interventi interconnessi per ottenere un cambiamento».
In questi dieci anni cosa le ha dato maggiore soddisfazione?
«Ci sono diversi risultati. Uno è vedere il cambiamento nell’approccio dei neonati prematuri. Un altro è vedere l’impatto della formazione: persone non sanitarie o semplici attivisti che trasmettono ai genitori messaggi chiave su assistenza materna, ostetrica, neonatale o pediatrica è una soddisfazione inestimabile. Inoltre, non si registra più il tetano neonatale e c’è stata una riduzione dei parti fuori dal reparto di maternità. Abbiamo formato le levatrici tradizionali affinché smettessero di assistere i parti fuori dall’ospedale e agissero da tramite, portando le madri a partorire in ospedale con l’infermiera. Vedere il miglioramento della qualità delle cure e dell’informazione nella comunità è una grande soddisfazione».
Quest’anno il Mozambico festeggia 50 anni dall’indipendenza: cosa sogna per il suo Paese?
«Per il futuro spero che ci sia una riduzione della mortalità materna e neonatale per cause evitabili. Sogno che ci siano più risorse in termini di infrastrutture, risorse umane e mezzi di trasferimento. Ci tengo a sottolineare che la realtà in città non è la stessa delle zone più remote, dove c’è ancora molto lavoro da fare. La mia speranza è che la qualità raggiunta qui a Beira possa essere estesa anche ad altri livelli, garantendo assistenza e attività sostenibili».
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