Storie
Uno sguardo di luce emanata da due occhi chiari e cristallini; un sorriso solare e una bellezza discreta di un volto che pare uscito dalle riviste patinate d’altri tempi. La chiamavano “la bella russa”, ma in realtà Nadia Zubco era ucraina, di Grasnohorovca, nella provincia di Donetsk. Era nata il 19 maggio 1921 e aveva solo vent’anni quando, nell’inverno del ‘42, i tedeschi prelevarono con la forza la sana e robusta gioventù per portarla in Germania nei campi di lavoro. Nadia racconterà poi che quel viaggio durò un mese e fu terribile. Vivevano in baracche di legno, sorvegliate dai soldati tedeschi, come prigioniere. Lì si infransero i suoi sogni e anche i suoi studi probabilmente, date le competenze che già possedeva. Verso la fine della guerra, nel 1945, Nadia ritrovò la libertà grazie a un trasportatore che la nascose nel cassone del suo camion, sotto una coperta, e la portò in Italia. Lo aveva conosciuto al campo poiché vi si recava periodicamente per portare rifornimenti. Con pochi gesti riuscirono a comunicare e a pianificare la fuga vissuta con momenti di terrore. Si trattava di Albano Molon, l’uomo che avrebbe sposato l’8 maggio dell’anno dopo a Monselice. Finalmente avrebbe potuto trovare un po’ di serenità e crearsi una famiglia, ma l’esperienza del campo purtroppo aveva lasciato il segno: Nadia non poteva avere figli. Lo scoprì in seguito a una colica alla quale seguì un intervento chirurgico. Non era la prima volta: Nadia aveva avuto un’altra operazione durante gli anni della prigionia, ma i medici italiani scoprirono che era stata sottoposta a una sterilizzazione tubarica a sua insaputa, così, quella donna che non avrebbe mai più potuto diventare mamma, divenne l’angelo di tante altre donne, aiutandole e sostenendole nei loro parti, per mettere al mondo tante piccole creature. Dopo il matrimonio la coppia andò ad abitare in centro a Monselice, al civico 7 di via Roma, proprio di fronte alla farmacia Giovannoli, dove spesso arrivavano le chiamate d’urgenza e qualcuno usciva chiamando Nadia dalla strada. Lei si affacciava alla finestra; poi si affrettava a partire sul suo motorino, e quando le situazioni erano più lunghe o delicate, si stabiliva a casa della partoriente per non lasciarla sola. A ricordo di una collega, Nadia non faceva distinzione tra le famiglie abbienti o meno, e non si preoccupava del compenso; prima di tutto veniva il suo dovere e una volta, essendole stato fatto notare che aveva aiutato delle prostitute, rispose: «Sapete quanto costa guadagnarsi il pane per quelle povere donne?». Negli anni del dopoguerra, non essendoci strutture adatte, e non essendoci molti ginecologi, i parti avvenivano quasi sempre in casa, e dalle varie testimonianze rimaste troviamo che Nadia era una persona competente, preparata, tanto «che sembrava già un medico», oltre a essere generosa e disponibile. Il suo ruolo non si limitava al parto, ma anche dopo la nascita seguiva le mamme dando consigli e impartendo le norme sanitarie e nutrizionali. Del resto lei aveva un titolo specifico ottenuto in Ucraina, ma dato che qui non era riconosciuto, era riuscita a ottenere un regolare diploma in ostetricia presso l’Università di Padova, conferitole nel ‘49 con il punteggio di 45 cinquantesimi. Nel 1950 ha partecipato a un concorso sanitario indetto dalla Prefettura, per poi diventare levatrice ufficiale nel Comune di Monselice. Dal 1968 è stata assunta all’ospedale cittadino ed è rimasta ostetrica di riferimento fino alla morte, avvenuta purtroppo in modo tragico con un incidente, a San Biagio di Callalta, mentre tornava con il marito da Cortina, dove si erano recati per una visita medica. Trasportata in gravissime condizioni all’ospedale di Vicenza, Nadia è deceduta la mattina del 24 dicembre 1974, a soli 53 anni. L’interesse verso questa straordinaria donna si è riacceso grazie s una ricerca dell’Università per il tempo libero di Monselice che a cinquant’anni dalla morte ha raccolto le testimonianze orali, e quanto rinvenuto in vari archivi, producendo il volumetto La levatrice venuta da lontano, presentato alla cittadinanza il 30 gennaio di quest’anno con l’intento di fare conoscere quanto sia stato valido e importante il suo operato. Grazie poi all’interesse del gruppo monselicense dell’Associazione toponomastica femminile, e ad Anteas Informanziani, è stato chiesto all’Amministrazione comunale di dedicarle un luogo in Monselice. La sindaca Giorgia Bedin, e la Commissione pari opportunità, hanno accolto con piacere la proposta, tanto che di recente è stata approvata l’intitolazione dei giardini di via 28 Aprile a suo ricordo, mentre una targa di benemerenza verrà posta sulla facciata della casa in cui abitò in via Roma. Inoltre i suoi dati anagrafici verranno inseriti nell’archivio anagrafico digitale, così da non perderne la memoria.

La levatrice venuta da lontano è stato prodotto a tiratura limitata dall’Università del tempo libero in collaborazione con l’Amministrazione comunale e Anteas Informanziani. È disponibile presso la biblioteca comunale San Biagio di Monselice. Tante le testimonianze raccolte che delineano Nadia Zubco come una persona piena di vita, solare, sempre generosa e disponibile con tutti.
Nei circa vent’anni in cui Zubco ha assistito le partorienti a domicilio, a Monselice sono stati registrati 88 battesimi con il nome Nadia. Un numero piuttosto alto e che senza dubbio parla da sé. Tanta era la riconoscenza delle mamme, che qualche volta chiedevano a Zubco di fare anche da madrina. «Dovevo chiamarmi Chiara – afferma Nadia Cillario che ha partecipato alle ricerche – ma mia madre decise alla fine di cambiare nome. Sono nata in otto mesi e il travaglio durò una settimana. In quel periodo Zubco rimase a casa nostra, non abbandonò mai mia madre». Una compagna di lavoro ricorda la sua profonda ammirazione per il marito Albano che le aveva salvato la vita: «Andava spesso con lui nel suo paese natìo e quando tornava portava sempre qualcosa a noi colleghe». Quando invece partiva per la sua terra «riempiva le valigie di cose per bambini che acquistava nei negozi di Monselice – ricorda l’ostetrica Gianna Gallo – soprattutto corredini e vestiti che portava a chi ne aveva bisogno».