Fatti
A giudicare dalle iniziative messe in cantiere, pare che lo Stato ebraico di Israele continui a essere prigioniero della compulsione ad aprire sempre nuovi fronti. Mentre nel Golan la tregua torna a vacillare, la Knesset ha appena votato una risoluzione che impegna il governo ad annettere definitivamente i territori della Cisgiordania assegnati dall’Onu alla popolazione palestinese.
Evidentemente ha un suo peso il fattore congiunturale, riconducibile all’emergenzialità che allontana da Netanyahu gli appuntamenti giudiziari che lo attendono in tema di abusi di potere e corruzione. Eppure le vicende personali, del tutto congiunturali, non bastano a spiegare il sussiego che l’establishment statale e gli ambienti economici assicurano al governo. È possibile invece distinguere un elemento strategico-strutturale. In effetti, le direttrici lungo le quali si muove l’agenda aggressiva di Tel Aviv suggeriscono una riedizione applicativa del Piano Yinon, dal nome del consulente del Ministero degli Esteri a cui si deve la dottrina che, dal 1982, prevede la frammentazione degli Stati della regione in entità su base etnica e confessionale, tali da rendere il Vicino Oriente uno spazio malleabile alle esigenze trasformative di Israele. Al quale preme conquistare un’adeguata profondità strategica, come pure dotarsi di proiezioni che gli consentano sbocchi necessari a non più dipendere dalle rotte commerciali e dalle arterie energetiche altrui.
Oggi il mirino sulla Siria e sul Libano, aggiungendosi alle attenzioni sull’Iran, si integrerebbe con le brame sui territori palestinesi: tutti tasselli di un unico disegno, conforme al progetto del Grande Israele cui risulta funzionale la legittimazione mediante il connotato religioso, messo nero su bianco nei programmi dell’ultradestra sionista: un’estensione corrispondente alla profezia talmudica con cui si reinterpreta l’inclusione della stella di David tra le due strisce blu, evocanti il Mediterraneo e l’Eufrate. A ciò darebbe riscontro la condanna da parte turca della volontà di Tel Aviv di favorire la sinergia tra curdi e drusi, al fine di spaccare la continuità territoriale siriana mediante il Corridoio di David. Segnatamente, il pretestuoso sostegno militare alle popolazioni druse applicherebbe la ricetta yinoniana di fomentare la balcanizzazione delle sovranità limitrofe, come già tentato con la guerra civile libanese, nella prospettiva del controllo israeliano dal Golan fino al confine turco-iraniano, tagliando le pertinenze siriane e irachene del Kurdistan, incluse le aree dell’ex Califfato dell’Isis. Con ciò assicurandosi l’autonomo attingimento delle risorse petrolifere lungo il tracciato.
Tali elementi, spiegando sul piano strategico l’incedere tutt’altro che disordinato di Israele, illustrano una volta di più le preoccupazioni della Casa Bianca. E mostrerebbero che, in realtà, gli Accordi di Abramo siano davvero poco congeniali agli interessi di Tel Aviv, incline a sottrarsi, mediante il caos regionale, a un assetto che congelerebbe definitivamente i perimetri di una geografia che le va troppo stretta. D’altronde Netanyahu ha dalla sua le divisioni che percorrono gli apparati Usa, potendo contare sul consueto appoggio neocon, spina nel fianco del Maga trumpiano. Il quale non può pensare che la Cisgiordania possa bastare come merce di scambio. Il baratto non servirebbe neanche per Gaza, giacché i ministri della destra confessionale continuano a snocciolare piani di deportazione dei gazawi in Etiopia, Libia, Egitto o Indonesia, con il supporto di argomentazioni bibliche.
Si consideri inoltre che, nonostante la “pausa tecnica” concessa dall’Idf, ancora ieri si sono contate 53 vittime, a fronte dell’incredibile serie di spot disseminati sui social a firma del Ministero degli Esteri israeliano – blindati da qualsiasi forma di segnalazione finalizzata alla rimozione – che addebita all’Onu il blocco dei camion di aiuti al confine con la Striscia.
Altrettanto velleitario l’annuncio di Macron di voler aggiungere la Francia al novero dei 140 Paesi che già riconoscono la sovranità dello Stato di Palestina. Pur vero che a Parigi preme specialmente placare il clima rovente nella società francese, agitata non solo nei suoi settori arabi, avendo altresì cura di riaccreditarsi nell’ex Françafrique e, in genere, nel Sud globale, dove la mattanza palestinese concorre al discredito occidentale. Fintantoché non ci sarà un territorio libero dall’occupazione illegale da parte israeliana, almeno nell’immediato, non servirà a molto tale legittimazione formale. Eppure è un segnale che merita di essere lanciato, a fronte di una connivenza che, piangendo i morti (oramai anche per fame), non basta nemmeno a interrompere la fornitura di materiale che, sotto le mentite spoglie del cosiddetto “dual use”, consente lo svolgimento della catastrofe umanitaria.
Le acrobazie giustificazionistiche della “ragion di Stato”, cercando sponda nella disinformazione, vorrebbero prevenire i sussulti delle coscienze che non siano già obnubilate da ciniche alienazioni. Tuttavia, per quanto indicibile, lo sgomento non può e non deve essere seppellito dal silenzio: a ciascuno, in seno alla società che vuol dirsi “civile”, spetta la sua parte di fattiva responsabilità. Che, come sempre, comincia dalla comprensione della realtà in atto.