Idee
Nota dei vescovi del Triveneto sul suicidio assistito. Un’autoriflessione seria
È quella che dovrebbe coinvolgere in Veneto cittadini, associazioni, medici e personale sanitario secondo il prof. Antonio Da Re
IdeeÈ quella che dovrebbe coinvolgere in Veneto cittadini, associazioni, medici e personale sanitario secondo il prof. Antonio Da Re
«Di fronte alla crisi dei luoghi di confronto e deliberazione etica le comunità, specialmente quelle cristiane, devono sentirsi stimolate a favorire uno spazio etico nel dibattito pubblico». È uno dei passaggi della nota congiunta a firma dei vescovi e della pastorale della Salute della Conferenza episcopale del Triveneto in cui viene rimarcata l’assenza di un dibattito pubblico sul tema dell’accompagnamento alla morte.
C’è una polarizzazione del tema, verso proposte eutanasiche, e pochi strumenti di confronto da dare anche ai cittadini? Per Antonio Da Re, docente ordinario di filosofia morale e di bioetica all’Università di Padova, «è vero: non c’è dibattito pubblico. E così si finisce per correre dietro in modo superficiale a proposte estreme e semplicistiche, come quelle propugnate dall’Associazione Coscioni con il suo leader Marco Cappato, che è riuscita a far presentare in alcune Regioni, in primis nel Veneto, una proposta di legge di legalizzazione del suicidio assistito. È bene ricordare che allo stato attuale il suicidio medicalmente assistito è ammesso in Italia solo in una fattispecie particolarissima e con condizioni assai stringenti, a seguito di quanto stabilito dalla sentenza numero 242/2019 della Corte Costituzionale. Il tentativo dell’Associazione Coscioni, piuttosto evidente, è di forzare la situazione e giungere a un riconoscimento generalizzato di suicidio assistito ed eutanasia, il che però contrasta palesemente con quanto stabilito dalla Corte. Non sono un giurista, ma mi sembra che nel progetto di legge in discussione al Consiglio Regionale del Veneto vi siano chiari profili di incostituzionalità: come si fa a prevedere un obbligo generalizzato di prestazione sanitaria a sostegno del suicidio, quando è la stessa sentenza 242 a escluderlo espressamente?».
Un altro passaggio importante è sul malato indotto a «percepirsi come peso». Eppure il primo compito di una comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte perché «il paziente inguaribile non è mai incurabile». Secondo lei viviamo in una società in cui facciamo fatica a relazionarci con la morte? Perché? «Che ci sia una difficoltà a relazionarci con la morte mi sembra indubbio. Ne è testimonianza da un lato la richiesta eutanasica e di suicidio assistito; e dall’altro la richiesta, assai più frequente di quanto non si creda, di insistere con il trattamento clinico anche quando questo sia inefficace (è l’accanimento terapeutico o l’ostinazione irragionevole di cui parla la legge 219/2017). Per rimanere alla legge 219, questa prevede, correttamente, che il medico possa sospendere un trattamento, quando appunto sia inappropriato; così pure il paziente può rinunciarvi, se la terapia risulta essere per lui troppo gravosa, sproporzionata. Ma sospendere un trattamento perché il malato è oramai inguaribile non significa sostenere che egli sia da considerarsi incurabile. È sempre la legge 219 a stabilire che il medico deve continuare a prendersi cura del paziente, per esempio con la terapia del dolore e le cure palliative, anche quando egli sia ormai inguaribile».
Le cure palliative sono poco “supportate” dalla narrazione quotidiana. Avverte un divario tra informazione che parla di suicidio assistito e quella carente sull’esigenza di spiegare cosa sono le cure palliative, soprattutto ai giovani perché vengono ancora viste come appannaggio solo per il morente anziano? Perché non educhiamo effettivamente i giovani, ma anche gli adulti di mezza età, non offriamo loro degli strumenti per “non smarrirsi” o poter pienamente scegliere? «Credo si possa spiegare facilmente l’asimmetria informativa, tutta incentrata sullo sdoganamento del suicidio assistito e silente sulle cure palliative. Queste, se adeguatamente conosciute in primo luogo dalla classe medica e poi erogate in strutture idonee e da personale competente, potrebbero per lo meno ridimensionare – e di molto – la domanda di suicidio assistito. Il fatto è che la soluzione eutanasica è più semplice e veloce e anche meno costosa; molto più lunga, complessa e costosa, la via delle cure palliative. Eppure, anche qui basterebbe rifarsi alla sentenza 242, che pure in alcuni punti è criticabile: non solo essa limita a situazioni del tutto eccezionali la possibilità di richiedere il suicidio assistito, ma subordina tale richiesta all’erogazione effettiva delle cure palliative. Le cure palliative sono quindi un pre-requisito indispensabile, cosa del tutto rimossa nel disegno di legge in discussione a Palazzo Balbi». I vescovi chiedono alle Regioni di farsi carico dell’attenzione sanitaria, da prediligere rispetto al prendere iniziative legislative che, essendo il tema di portata ampia, spetterebbero al Governo. Il riferimento è proprio al Veneto. Qui si può davvero aprire quel dibattito necessario? «I vescovi hanno ragione: più che fughe in avanti sollecitate in modo strumentale dall’esterno, meglio una seria autoriflessione, che veda protagonisti i cittadini, le associazioni, le comunità del Veneto, in particolare chi si trova in prima linea ovvero i medici, il personale sanitario e quello socio-assistenziale. Si possono individuare tre obiettivi verso i quali indirizzare tale attenzione: un deciso ampliamento, con adeguati finanziamenti, del sistema di cure palliative, sia presso ospedali e Rsa, sia a livello domiciliare; l’abbattimento delle liste d’attesa per visite specialistiche e il rafforzamento della medicina di base. Infine il terzo obiettivo, con una verità scomoda. Mi spiego: non possiamo escludere per il futuro un’emergenza sanitaria come quella di Covid-19. Sin d’ora dobbiamo prepararci, sperando che non accada. Ma se accadesse, dovremmo evitare quanto accaduto nella seconda ondata di Covid, nell’autunno-inverno 2020- 21: il Veneto, che nella prima ondata aveva tenuto botta, nella seconda ha conosciuto un tasso di mortalità proporzionalmente assai superiore a quello di tutte le altre regioni, anche della Lombardia. Dobbiamo capire bene il perché di una tale débâcle: forse è su questo che il Consiglio Regionale del Veneto farebbe bene innanzitutto a interrogarsi».

Dall’8 novembre al 20 dicembre, il cinema Esperia di Padova in via Chiesanuova 90 propone “Il buono, il lutto, il cattivo”, una rassegna cinematografica proposta da Ester Boccasso, psicologa e psicoterapeuta, da un’idea di Alessandra Rossi, life and death coach, per sensibilizzare sui temi del fine vita. Quattro film la cui finalità è diminuire l’angoscia della morte e offrire risorse utili a un’apertura affettiva sui temi che riguardano la separazione e il distacco. Insegnare alle persone come gestire la sofferenza della perdita senza nasconderla o negarla. Al tabù della morte si contrappone un’educazione al dialogo. Il programma (appuntamenti alle 20.45, costo biglietto 6 euro intero, 5 euro ridotto): 8 novembre Still life; 22 novembre The Departures; 6 dicembre In cerca di cura; 20 dicembre Nowhere special. Info su esperiapadova.it