Storie
Al primo sguardo è solo una sequenza di numeri: 189488. Poi, ascolti Oleg Mandić, 92 anni, avvocato e giornalista croato, l’ultimo bambino a lasciare il campo di sterminio di Auschwitz nel 1945 tra più di 200 mila bimbi deportati, e capisci come un numero possa far sprofondare nel buio dell’abisso, se te lo tatuano sull’avambraccio per identificarti tra migliaia di prigionieri. Perdi il nome e diventi quel numero.
Lo scorso 10 ottobre, nel patronato di Roncaglia di Ponte San Nicolò, a Padova, in una sala gremita anche da molti giovani, grazie alla sezione locale dell’Azione Cattolica è avvenuto un incontro con Oleg Mandić. Nonostante l’età, ha raccontato la sua storia con la forza di un ragazzo, come fa dal resto da vent’anni a questa parte nelle scuole e nella società civile. Ogni volta, trova «il coraggio di ricordare perché è necessario che ognuno faccia la sua parte e i sopravvissuti come me non smettano di parlarne: la mia è una missione, una guerra contro l’odio e l’indifferenza».
Nato nel 1933 a Susak, sobborgo della città di Fiume, in Istria, a quel tempo italiana, Mandić viveva con la famiglia a Volosca, quartiere portuale di Abbazia. Fu deportato dai nazifascisti nel maggio 1944, quando aveva 11 anni, in qualità di prigioniero politico insieme a mamma e a nonna per ritorsione nei confronti del nonno e del padre, personaggi di spicco della Resistenza jugoslava. Il piccolo nucleo familiare fu deportato a Trieste, nel carcere del Coroneo, poi ad Auschwitz, dove sperimentò, come tutti gli altri compagni di sventura, l’inimmaginabile: la fame, i lavori forzati, i continui soprusi da parte delle Ss (la Schutzstaffel, la guardia d’élite creata dal regime nazista), la morte che imperava ovunque nel campo.
Mandić nel suo racconto ha parlato spesso di selezione. Avveniva fin da subito, quando i deportati erano smistati nei vagoni treno senza finestrini e indirizzati ai diversi campi di concentramento; proseguiva all’arrivo al campo, quando erano spediti direttamente alla camera a gas o nelle baracche a seconda dello sguardo del medico di turno; c’era poi la selezione tra uomini, donne e bambini (questi ultimi rimanevano con la madre solo se avevano un’età inferiore a 10 anni, Mandić mentì sulla sua per rimanere con mamma e nonna, fu fortunato che gli credettero); un’ulteriore cernita avveniva durante gli appelli che le Ss facevano più volte al giorno davanti alle baracche, in file da cinque: se qualcuno ritardava alla chiamata poteva venire ucciso a bastonate, o peggio.
Ha parlato di speranza, ma per dire che era il primo sentimento a morire quando si varcava la soglia del lager; la seconda a mancare era la fede: Mandić entrò nel campo sottobraccio a Dio, dopo tanto orrore ne uscì solo. Un pensiero questo umanamente comprensibile. In loro rimaneva l’istinto di sopravvivenza, di cui poi ci si vergognava, perché generava egoismo e cinismo nei confronti degli altri.
L’amicizia era pressoché assente. Mandić però la provò verso Tolja, bambino ucraino di 9 anni che morì tra le sue braccia sognando di vedere il mare di Abbazia, che tante volte Oleg gli aveva descritto. Auschwitz era una perfetta industria della morte: chi non moriva gassato e bruciato nei forni crematori moriva di sfinimento in meno di sette, otto mesi.
Il piccolo Mandić finì addirittura nel reparto di Joseph Mengele, passato alla storia come “il dottor morte”. Ma per lui questo reparto rappresentò una «vita da nababbi» rispetto a quella che faceva nella baracca, e vi sopravvisse «trasformandosi in un granello di sabbia», come recita un proverbio croato, cercando quindi di diventare invisibile agli occhi di colui che compì efferati e mortali esperimenti medici sui bambini gemelli, di cui al tempo nessuno sapeva. Vi rimase fino al 27 gennaio 1945, quando furono liberati dall’esercito russo.
Chi volesse approfondire la sua terribile e commovente storia può leggere il libro Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz (Newton Compton Editori) che Filippo Boni ha scritto con Mandić stesso. Perché Auschwitz è stata la fabbrica dello sterminio dell’uomo sull’uomo. Vi morirono più di un milione di persone, solo 195 mila sopravvissero. Mandić fu l’ultimo prigioniero, l’ultimo bambino, l’ultimo essere umano a uscire vivo dal lager. E a chiuderne la porta.

Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz (di Filippo Boni con Oleg Mandić, edito da Newton Compton Editori, gennaio 2025, 288 pagine, 12,90 euro). Per anni tiene sotto chiave i ricordi, incapace di descrivere ciò che ha vissuto. Ma quando riaffiorano, arriva il bisogno di tornare, di rivedere quei luoghi, darne testimonianza e rispondere al richiamo di una misteriosa lettera…
Nella villa Venier di Vo’ Vecchio, nel Comune di Vo’ Euganeo, sui Colli Euganei, dal 3 dicembre 1943 al 17 luglio del 1944, ci fu un campo di raccolta per gli ebrei del Padovano e del Rodigino, che furono poi deportati ad Auschwitz il 31 luglio 1944, dove arrivarono il 3 agosto 1944. Al momento della deportazione, vi erano internate 47 persone. Ecco i loro nomi: Ancona Ada, Ancona Irma, Ascoli Emma, Bassani Gemma, Belaar Elisa, Bindefeld Clara, Bindefeld Sigismondo, Coen Oscar, Coen Sacerdoti Eugenio, Dina Amalia, D‘italia Giovanna, Franco Bruno, Franco Enzo, Frieder Frida, Gesses Elia, Gesses Sara, Hammer Ester, Hammer Lazzaro, Heller Samuele, Jacchia Anselmo, Jacchia Ercole, Jacchia Ida, Jacchia Pasqua, Kapper Eva, Kapper Gustavo, Kapper Pietro, Levi Ada, Levi Alvise, Levi Augusto, Levi Marco, Levi Mario, Levi Minzi Augusto, Lorent Geltrude, Moresco Ida, Namias Bruna, Orefice Emma, Parenzo Italo, Pesaro Ada, Rothschild Elsa, Rudol Caterina, Sabbadini Elio, Sabbadini Sylva, Sullam Gisella, Supino Teresa, Valabrega Evelina, Valabrega Umberto, Zevi Anna. Quando l’esercito russo il 27 gennaio 1945 liberò Auschwitz solo tre donne di Vo’ erano ancora vive: Bruna Namias, Ester Hammer Sabbadini e la figlia Silva (fonte www.internamentoveneto.it).