Storie
Opera Casa Famiglia. 60 anni donando presenza
«La regola è: esserci». Questa, per suor Graziella Giraldo, per anni attiva nell’Opera Casa Famiglia, è la chiave per comprendere i bisogni di un’adolescente.
Storie«La regola è: esserci». Questa, per suor Graziella Giraldo, per anni attiva nell’Opera Casa Famiglia, è la chiave per comprendere i bisogni di un’adolescente.
A ricordarlo è Agata Magnano Aliprandi, che dal 1999 al 2014 ha guidato questo presidio di accoglienza rivolto alle ragazze in situazione di disagio familiare o sociale, arrivato a compiere sessant’anni. Una storia di attenzione e di un prendersi cura che ne comprende tante altre. L’Opera è nata come fondazione della Diocesi nel 1964 per volontà dell’allora vescovo Girolamo Bortignon, in un quartiere critico come quello della stazione: la prima sede si trovava in via Nino Bixio. Ai volontari dei primi anni si sono aggiunte nel 1978 le suore Elisabettine fino a quando, negli anni Novanta, è nata la comunità residenziale di accoglienza e accompagnamento di ragazze adolescenti dai 13 ai 18 anni. Di solito funziona così: il primo campanello d’allarme arriva dalla scuola; poi i servizi sociali, attraverso il tribunale, dispongono l’allontanamento dalla famiglia e l’affidamento alla comunità. I fondi, sempre pochi, provengono dai Comuni di provenienza. Di periodi difficili, in questi sessant’anni, ce ne sono stati tanti. «Dal punto di vista economico sempre – ricorda Agata Magnano Aliprandi – Più di una volta siamo stati sul punto di chiudere. Abbiamo avuto anche casi di “messa alla prova” da parte di tribunali dei minori (un istituto alternativo alla pena, ndg) e abbiamo accolto ragazze con problemi psichici. Gli operatori sono stati eccezionali, mi domandavo come facessero. Ho chiesto notizie di un’ospite particolarmente problematica: mi hanno detto che si è laureata e insegna. Sono i miracoli che accadono qui. Ogni cosa fatta, quell’affetto e quell’attenzione, non vanno mai perduti, nemmeno per i casi in cui sembra non ci siano speranze. Una cosa importante che ho capito è che non bisogna farsi condizionare dal bilancio: noi non siamo una qualsiasi impresa! Se qualcuno ha bisogno, suona il campanello, si ferma e chiede aiuto, tu apri la porta, perché questo è Vangelo e noi siamo espressione della Chiesa». Il testimone di Agata Magnano Aliprandi è stato raccolto da Benedetta Castiglioni, presidente dal 2014 al 2020. «Ma è da più di trent’anni che insieme a mio marito seguiamo l’Opera Casa Famiglia, come volontari. Abbiamo avuto delle fasi diverse per modalità e intensità di impegno. Nei primi anni, quando la comunità era gestita ancora dalle suore elisabettine, eravamo una giovane famiglia e condividevamo alcuni momenti con le ragazze, che venivano spesso a casa nostra, e con altre famiglie. Facevamo da cugini, zii, fratelli maggiori. È stata per noi un’esperienza molto importante. Poi sono entrata in consiglio d’amministrazione e quando mi è stato chiesto di assumere la presidenza sono riuscita ad accogliere la parte amministrativa e burocratica perché sapevo cosa c’era dietro. Il mio impegno cambiava, ma era sempre funzionale alle ragazze. È stato il mio modo di partecipare alla vita della Chiesa padovana». «Opera Casa Famiglia è un luogo in cui ci si mette in gioco, ciascuno col proprio ruolo, e si accoglie la vita di queste ragazze, che vuole crescere e si manifesta nei modi più disparati e problematici – prosegue Castiglioni – Ma, che il percorso sia stato lungo o breve e sia finito bene o male, in quel luogo le ragazze hanno sperimentato una gratuità, un’attenzione, una cura che ha permesso loro di essere se stesse. La condivisione degli obiettivi permette di superare le fatiche dei momenti difficili, che ci sono. È un luogo in cui si sperimenta che possono succedere i miracoli: piccole cose, sorrisi, frasi, o aiuti che arrivano nel momento più insperato». Nel 2020 la presidenza della fondazione è stata assunta da Filippo Griggio. Attualmente, nella sede di via Tre Garofani, l’Opera conta su due appartamenti con otto stanze, singole o doppie. Si convive come in una grande famiglia, con la presenza costante di un educatore. Le ragazze vanno a scuola, fanno attività sportiva e frequentano la parrocchia della Madonna Pellegrina, con la quale c’è un forte legame di collaborazione.
«Cerchiamo di avere delle relazioni sul territorio e di dare alle ragazze quella normalità e quell’affetto che prima sono mancati e che portano all’educazione, sapendo che non possiamo sostituirci al padre o alla madre – spiega Filippo – Le nostre ospiti dovrebbero rimanere fino ai 18 anni. I problemi sono i fondi dei Comuni, che sono scarsi, spesso tardivi e a volte nulli. Abbiamo avuto casi di forte morosità, ma viviamo anche grazie a tante donazioni». All’interno della comunità lavorano sette educatori ed educatrici, laureati in scienze dell’educazione, psicologia, pedagogia e servizi sociali, tutti molto giovani. Ma cosa significa lavorare all’interno di una comunità educativa? «Vuol dire occuparsi di tutto, dalle cose più pratiche come preparare pranzi e cene, fare la spesa, fino agli aspetti progettuali – risponde il coordinatore dell’equipe Emiliano Marchioro – Ci occupiamo di accompagnarle in questo percorso all’interno della comunità, un percorso che non ha una durata, ma varia in base ai progetti, al decreto del tribunale e ad altre cose. Chi lavora all’interno di una comunità lo fa perché crede in qualcosa di più alto, nella possibilità di far sperimentare un modo diverso di vivere e di stare insieme, di spiegare alle minorenni che ci sono state affidate che non sono la loro storia, ma il loro futuro. Cerchiamo di aiutarle a concentrarsi su quello che possono essere, senza dimenticarsi chi sono, ma condividendo con noi la pesantezza del fardello che le ha portate in comunità». Una problematica che non sembra così sporadica. «Le ragazze sono il prodotto di un’educazione discontinua, problematica, – prosegue Marchioro – dove quello che non ha funzionato sono le famiglie. Famiglie dove non si parla più, dove i genitori non hanno saputo gestire i loro problemi e li hanno poi riversati sui figli, scatenando devianze, abuso di sostanze, di alcol, baby gang. Quello che vedo è il nucleo familiare che va disgregandosi. Le nostre comunità sono parte di un sistema, non sono situazioni sporadiche. C’è un numero sempre più grande di famiglie che sommergono, che non mostrano. Situazioni di baby gang, di hikikomori, di abuso di sostanze e di alcol, che vengono gestite in famiglia». Per questo l’Opera sta pensando di programmare un ciclo di incontri formativi rivolti ai genitori per accompagnarli nell’educazione del figlio adolescente. «Pensiamo di rivolgerci al territorio – conclude il presidente Filippo Griggio – per creare un polo di aggregazione nel sociale dedicato all’educazione di ragazzi e genitori. Per aiutarli a leggere il disagio e a intervenire».
I festeggiamenti per l’anniversario della fondazione della casa famiglia sono in programma per sabato 24 febbraio alle 21 al cinema Rex (via Sant’Osvaldo, 2). La cerimonia inizia con il saluto di benvenuto e un excursus sulle tappe fondamentali dei sessant’anni di storia. Segue un momento di condivisione di ricordi e testimonianze; quindi, musica e performance. Obiettivo degli eventi per il sessantesimo è anche ricostruire la rete di volontari che ruotava intorno alla casa famiglia e che il Covid ha sradicato. «Sono in definizione altri eventi istituzionali e formativi: vogliamo che il 2024 sia l’anno per ridare vita alla presenza dell’Opera casa famiglia nel territorio», sottolinea Filippo Griggio.
Una volta divenute maggiorenni, le ragazze devono poter sperimentare la loro indipendenza in una situazione protetta. Così dal 2000, al nucleo iniziale, sono stati aggiunti alcuni appartamenti, cosiddetti “di sgancio”.
L’Opera è nata come fondazione della Diocesi nel 1964 in un quartiere critico come quello della stazione, per volontà dell’allora vescovo Girolamo Bortignon. Oggi è inserita nella comunità della Madonna Pellegrina.