Fatti
Dopo oltre due anni di prigionia, esattamente 738 giorni, la mattina del 13 ottobre Hamas ha rilasciato venti ostaggi adulti israeliani, ancora vivi, detenuti nella Striscia di Gaza. I primi sette, pochi minuti dopo le 7; gli altri tredici poco prima delle 10 ora italiana. Dalle immagini televisive, sembrano essere tutti in discrete condizioni di salute, ma quali ferite invisibili porteranno con sé? Come si sopravvive ad un’esperienza che stravolge la percezione del tempo, del corpo, della fiducia? E intanto, lo scorso 7 ottobre si è tolto la vita Roei Shalev, sopravvissuto al massacro del Nova Festival, dopo aver visto morire accanto a sé la fidanzata due anni prima. Qualche mese prima si era suicidata anche Shirel Golan, 22 anni. Come si convive con il senso di colpa del sopravvissuto? Per parlare di tutto questo abbiamo raggiunto Noemi Grappone (nella foto), psicoterapeuta esperta in traumi da guerra e violenza, supervisore Emdr.
Dottoressa Grappone, quali sono le conseguenze psicologiche di un sequestro e di una prigionia così prolungati?
Il sequestro è un’esperienza estrema che può generare disturbo post-traumatico da stress (Ptsd), dissociazione, alterazioni della memoria e della percezione del sé. Sopravvivere non significa tornare alla vita di prima. Significa convivere con pensieri intrusivi, flashback, disturbi del sonno, difficoltà relazionali, incapacità di provare piacere, depressione, dissociazione, senso di colpa al momento del rilascio verso chi è ancora detenuto o è morto durante il sequestro. Il disturbo da stress post-traumatico può congelare l’individuo (freezing) o renderlo iperallertato.
È un trauma profondo, che richiede tempo e interventi di cura iperspecializzati.
Durante la prigionia, come cambia la percezione di sé e del mondo?
C’è una perdita di fiducia negli altri, nel mondo, nei propri valori. Chi ha vissuto una prigionia non ha più riferimenti: né familiari, né relazionali, né politici. Si sviluppa una crisi identitaria:
“Io adesso chi sono? Come posso reinserirmi nel mondo? Come tornerò ad una vita normale?”.
In condizioni di isolamento e privazione, senza sapere se e quando si verrà liberati, quali meccanismi di sopravvivenza mentale si attivano per resistere?
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La mente attiva forme di dissociazione per sopravvivere.
Ma quando il cervello si abitua a questo stato dissociativo, reintegrarlo è complesso. Serve un intervento iperspecialistico, non soltanto specialistico, un intervento con appositi strumenti per ricostruire le connessioni interne e “reintegrare” la parte del cervello che è stata dissociata.
L’Emdr è efficace in questi casi?
Sì. L’Emdr nasce per i veterani, i reduci di guerra. È uno strumento potente per affrontare traumi complessi, ma va adattato e personalizzato.
Quanto può durare un percorso di guarigione?
Anni. Il trauma non finisce con la liberazione. Finisce quando il passato viene lasciato nel passato e la persona si apre al presente e ad una prospettiva nuova. Non bisogna avere fretta di tornare alla normalità:
per chi ha vissuto l’orrore, la normalità diventa una rinascita.
Che cosa è importante fare nei primi giorni dopo il rilascio?
L’intervento psicologico deve essere parte integrante della risposta umanitaria.
Non possiamo salvare un corpo e dimenticarci dell’anima.
Servono ascolto, tempo, spazi per raccontarsi, ma questo può avvenire soltanto quando si è riusciti a fare i conti con la propria storia. Ripeto: non bisogna avere fretta perché la liberazione fisica non coincide con quella psicologica, così come la guarigione fisica non coincide con quella dell’anima.
Pensando ai due suicidi dei sopravvissuti al 7 ottobre, che cosa accade nella mente di chi scampa ad una strage?
Essere scampati a questo genere di strage è un trauma con la T maiuscola, amplificato dalla presenza di un colpevole. Non si tratta infatti di un evento naturale, ma del frutto di una barbarie umana. I sopravvissuti vivono in una condizione di trauma “ancora in atto” molto difficile da superare, e purtroppo notizie ascoltate, date particolari, anniversari possono riattivare tutta la crudeltà di quell’evento e riacutizzarne il dolore. Esiste una vera e propria sindrome dell’anniversario. In condizioni di solitudine e mancanza di percorsi di cura questi traumi possono diventare letali.
Qual è, allora, il messaggio per chi oggi esce da un incubo durato anni?
Occorre riconoscere il trauma, affrontarlo, curarlo. Servono cure tempestive, iperspecialistiche, personalizzate. Non esistono risposte universali. Esiste il diritto alla cura, alla dignità, alla rinascita.