Mosaico
Ogni 67 persone nel mondo, una è stata costretta a lasciare la propria casa dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla fame. Sono numeri, enormi, ma sono anche vite, che la mostra “Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo” cerca in qualche modo di ascoltare, guardare negli occhi. Fino al 31 luglio (ingresso gratuito tutti i giorni, dalle 10 alle 23), tra il giardino pensile di Palazzo Moroni e il cortile antico di Palazzo del Bo a Padova l’arte prende parola al posto di chi spesso ne è privato. E lo fa in formato 10×12 centimetri: minuscole tele che aprono finestre vastissime su esistenze per noi sconosciute e, per certi versi, inimmaginabili.
La selezione, curata per la Fondazione Imago Mundi di Treviso da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, è frutto di una ricerca condotta letteralmente sul campo, nel senso che ha coinvolto 264 artisti provenienti da 18 dei più grandi campi rifugiati del pianeta, da Dadaab e Kakuma in Kenya a Kutupalong in Bangladesh, da Za’atari in Giordania ai campi palestinesi di Irbid e Baq’a, fino ai confini tra Colombia, Messico e Stati Uniti. Insieme alle opere pittoriche, la mostra propone video, installazioni, fotografie: testimonianze che narrano l’essere fuori posto come condizione esistenziale, ma anche come terreno di espressione. Ogni opera è un frammento di mondo. C’è chi, come la regista congolese Aminah Rwimo, trasforma l’arte in messaggio per i propri compagni di campo: «Qualunque cosa ci sia accaduta fa parte della nostra vita. Ma non ne costituisce la fine».
E c’è chi, come la vietnamita MyLoan Dinh, incornicia la propria foto di famiglia nei brandelli di una borsa di plastica, di quelle usate da chi fugge per trasportare i propri averi, e la riempie di frammenti di guscio d’uovo: fragile come il legame con le proprie radici. La mostra è un vero e proprio atlante dell’esilio, ma anche dell’identità che resiste. Come spiega la Fondazione Imago Mundi, l’obiettivo non è solo mostrare la realtà, ma comprenderla, abitare con lo sguardo spazi liminali, dove pennello e colori possono diventare strumento per pensare il presente e immaginare altri futuri possibili. Un gesto di sconfinamento che sfida le logiche dell’esclusione. In un’epoca in cui la parola rifugiato è spesso svuotata da semplificazioni o pietismo, “Out of Place” sceglie di partire dalla persona, dall’individuo: «Non una massa indistinta di esseri umani – sottolineano i curatori – ma singoli con una propria voce, una propria visione».
Cristina Basso, prorettrice alle Relazioni internazionali dell’Università di Padova, ricorda l’impegno con i programmi di accoglienza e di assistenza verso studenti e ricercatori provenienti dalle aree di conflitto o in esilio, secondo quella libertas che da più di 800 anni costituisce il tratto distintivo dell’Ateneo: «L’idea è quella di un’università che accoglie condividendo spazi e saperi, proprio come questa mostra». E a questo spazio condiviso contribuisce anche l’arte. «L’arte – conclude l’assessore alla cultura Andrea Colasio – è più forte di qualsiasi violenza e limite che viene posto agli esseri umani». Perché dà forma a ciò che non trova parole, e restituisce dignità. A chi fugge, a chi resta, a chi sogna un altrove possibile.
264 artisti raccontano con l’arte storie uniche e potenti di resistenza, identità e speranza, storie provenienti da cinque continenti A Padova fino al 31 luglio, ingresso gratuito.