Con la crisi del Covid, tra febbraio e marzo 2020, il termine di reshoring è tornato di moda. Se per offshoring intendiamo lo spostamento all’estero di intere filiere industriali per ragioni fiscali e di costi di produzione, il reshoring è il processo inverso, fatto per motivazioni legate alla sicurezza e all’autonomia strategica.
Oggi, però, all’inizio di un 2025 così difficile per i rapporti tra le sponde dell’Atlantico, c’è un tema di autonomia strategica che ci vede terribilmente esposti: quello del digitale. Perché, anche se non ci pensiamo, gran parte della nostra vita digitale si svolge in server e in servizi statunitensi. Per le mail, le ricerche e i dati c’è Google, ci teniamo in contatto con WhatsApp, Facebook e Instagram di Meta, facciamo i nostri acquisti su Amazon, esercitiamo i nostri due minuti d’odio di orwelliana memoria sul cadavere di Twitter. L’unico “campione” del digitale europeo è Spotify, il servizio di streaming musicale. Un’eccezione. La logica bistrattata delle regolazioni dell’Unione Europea – a volte ingombranti come ricordato da Mario Draghi all’Eurocamera – ha però come fine la tutela del cittadino nei suoi diritti, dalla privacy al diritto all’oblio. E non è un caso se i colossi del tech, con l’esordio del secondo tragico Trump (cit.), puntino allo scontro con le istituzioni europee (anche per le multone per ragioni di antitrust di Monti prima e di Vestager poi). Il 23 febbraio Severgnini sul Corriere si domandava come potremmo vivere senza WhatsApp. Esistono alternative? Il sito european-alternative.eu prova ad elencare una serie di servizi digitali – server, motori di ricerca, mail, traduttori automatici, piattaforme di cloud computing e AI generative – europee. Ma non basta, anche perché spesso le alternative sono sottodimensionate. Si può fare di più: la competitività europea, faro dei rapporti Draghi e Letta, passa anche da nuovi “unicorni” digitali. A dodici stelle e con lo sfondo blu elettrico.
Andrea Canton Giornalista, fa parte di Weca-Webcattolici Italiani
