FattiGli studiosi hanno scoperto che il cosiddetto "1% più ricco" ha inciso sull'aumento degli episodi estremi di calore mensili in misura 26 volte superiore rispetto alla media globale
La crisi climatica non è soltanto una sfida ambientale: è anche un problema profondamente intrecciato con le disuguaglianze economiche globali. Chi ha di più, infatti, incide maggiormente sul cambiamento climatico rispetto a chi vive in condizioni economiche meno agiate. Ma quanto è ampia questa differenza, e quali ne sono le conseguenze concrete?
A fornire una risposta è un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Climate Change, coordinato da Sarah Schöngart dell’International Institute for Applied Systems Analysis (IIASA, Austria) in collaborazione con l’ETH di Zurigo. Secondo i ricercatori, il 10% più ricco della popolazione mondiale sarebbe responsabile di circa due terzi del riscaldamento globale registrato negli ultimi trent’anni, contribuendo in maniera decisiva anche all’aumento di eventi estremi come ondate di calore, siccità e alluvioni. Questa responsabilità è particolarmente evidente guardando alla fascia più alta della piramide economica globale: il cosiddetto “1% più ricco”. Gli studiosi hanno scoperto che tale élite ha inciso sull’aumento degli episodi estremi di calore mensili (che normalmente si verificherebbero solo una volta ogni secolo) in misura 26 volte superiore rispetto alla media globale. Ancora più emblematico è il caso dell’Amazzonia, dove i periodi di siccità sono stati accentuati dalle emissioni prodotte da questo piccolo gruppo sociale ben 17 volte oltre la media mondiale.
Ciò che rende particolarmente innovativo questo studio non è solo il dato quantitativo, ma il metodo utilizzato. Per la prima volta, infatti, i ricercatori hanno integrato dati economici e modelli climatici, analizzando sia i consumi personali (come automobili, aerei privati, abitazioni di lusso) sia, soprattutto, gli investimenti economici e finanziari effettuati dai più ricchi. È proprio attraverso questi investimenti che emergono responsabilità indirette finora poco analizzate: finanziamenti, prestiti e attività assicurative che sostengono aziende coinvolte nell’estrazione di combustibili fossili e nella produzione di energia da fonti altamente inquinanti.
Un esempio emblematico citato dagli scienziati è quello delle emissioni causate dalle attività finanziarie negli Stati Uniti e in Cina. Secondo lo studio, le emissioni generate dal 10% più ricco in questi due Paesi sarebbero sufficienti a triplicare la frequenza e l’intensità di fenomeni estremi in regioni particolarmente vulnerabili come l’Africa subsahariana, il Sud-Est asiatico e il Sudamerica.
Le implicazioni di questi risultati sono chiare e urgenti. Secondo Schöngart, “È fondamentale che le politiche climatiche globali inizino a considerare seriamente il ruolo delle emissioni indirette generate dalle attività finanziarie ed economiche della parte più ricca della popolazione mondiale”. Questo cambio di paradigma consentirebbe non solo una più equa ripartizione delle responsabilità climatiche, ma anche un indirizzo più efficace dei fondi verso Paesi e regioni che soffrono maggiormente le conseguenze della crisi climatica.
In tal senso, orientare la fiscalità, gli investimenti e i finanziamenti privati verso attività più sostenibili e meno impattanti diventa una priorità politica oltre che ambientale. Rendere consapevoli le grandi istituzioni finanziarie della loro responsabilità indiretta, introducendo politiche che limitino il sostegno economico ai combustibili fossili, potrebbe accelerare significativamente la transizione verso economie sostenibili e resilienti.
Dunque, affrontare la crisi climatica in modo efficace significa anche agire direttamente su chi più contribuisce al problema. Non si tratta solo di una questione etica o morale, ma di una strategia scientificamente fondata, necessaria per contrastare efficacemente l’aggravarsi delle disuguaglianze climatiche ed economiche su scala globale.
