Idee
Restare accanto alle comunità, anche nei momenti più duri, significa generare speranza. Ne è convinta Chiara Scanagatta, Programme Manager di Medici con l’Africa Cuamm, che per oltre quattro anni ha coordinato i progetti dell’organizzazione in Sud Sudan, il Paese più giovane e più fragile dell’Africa. In questa intervista, racconta come, tra ospedali riattivati, scuole di formazione per ostetriche e infermieri, e servizi garantiti anche durante la guerra civile, la presenza del Cuamm sia divenuta segno concreto di vicinanza, cura e futuro.
Come è iniziata la sua esperienza in Sud Sudan?
Sono capitata in Sud Sudan un po’ per caso, a 29 anni. Dopo una prima esperienza in Angola, Cuamm mi ha chiesto di coordinare i suoi progetti nel Paese più giovane e, forse, più difficile dell’Africa. Ci sono rimasta oltre quattro anni. Quando sei lì, capisci che non puoi pretendere di cambiare tutto, ma puoi contribuire a dare speranza: speranza di ricevere cure, di avere un lavoro, di una vita dignitosa, di studiare e formarsi. Ricordo le parole dell’amministratore di un ospedale, in una delle fasi più dure della guerra civile: “Se voi del Cuamm non foste rimasti, noi ce ne saremmo andati”. Lì ho compreso che, a prescindere dai risultati immediati, anche solo esserci, lavorare insieme alla gente, può generare un cambiamento.
Da quanto tempo Medici con l’Africa Cuamm opera in Sud Sudan?
Il nostro intervento è iniziato nel 2006, nello Stato dei Laghi, rispondendo all’invito dell’allora vescovo di Rumbek di riattivare l’ospedale di Yirol, distrutto durante la guerra per l’indipendenza dal Sudan. Da allora è stato un cammino lungo, che ci ha portati a supportare l’intero sistema sanitario dello Stato dei Laghi: oggi contiamo 4 ospedali, 66 centri di salute e dispensari e 672 operatori sanitari di villaggio, distribuiti in 8 contee e collegati da un servizio di ambulanza permanente. Affianchiamo le autorità e il personale locale nella gestione dei servizi di base e di emergenza, con particolare attenzione a donne e bambini. Inoltre, sosteniamo due istituti di Scienze sanitarie per la formazione di ostetriche e infermieri.
Com’è la situazione del Paese dal punto di vista sociale e sanitario?
Il Sud Sudan è un Paese fragilissimo: è ultimo al mondo per indice di sviluppo umano, e oltre metà della popolazione vive in condizioni di crisi umanitaria. Il sistema sanitario dipende quasi interamente dai partner internazionali. Durante la guerra civile, scoppiata nel 2013 e mai del tutto sopita, abbiamo scelto di rimanere. I medici e gli operatori del Cuamm hanno continuato a garantire cure, sia per la popolazione residente che per quella sfollata. Nel 2014, proprio in quegli anni difficili, siamo riusciti a riattivare a Lui, nello Stato di Western Equatoria, una scuola per ostetrici. Sembrava impossibile, eppure tutti i venti studenti iscritti hanno raggiunto il diploma. Più tardi abbiamo sostenuto anche l’Istituto di Scienze Sanitarie di Rumbek, dove lo scorso gennaio si sono laureati 57 giovani tra infermieri e ostetriche. È la gioia nei loro occhi, e in quelli delle loro famiglie, che ti dà la forza di andare avanti.
Quali sfide state affrontando oggi?
Purtroppo ci troviamo di fronte a una nuova crisi, causata dalla riduzione del sostegno internazionale. I tagli hanno avuto un impatto pesante sui servizi di base e di emergenza. Si registra un calo drammatico dei bambini vaccinati, delle donne che ricevono assistenza qualificata al parto, e dei casi urgenti che vengono presi in carico. Nel 2022, l’ospedale di Rumbek, che supportiamo dal 2017, ha rischiato la chiusura: ciò avrebbe privato 760.000 persone dell’assistenza sanitaria. Grazie alla collaborazione con le autorità e alla mobilitazione delle comunità locali, siamo riusciti a mantenere in funzione i servizi materno-infantili e la sala operatoria. I dati del 2023 ci hanno dato speranza: con 3.414 parti assistiti, l’ospedale ha gestito il 20% di tutti i parti nello Stato dei Laghi e l’80% in quella contea. La copertura del parto istituzionale ha raggiunto il 27%, ben oltre la media nazionale, che è tra il 15% e il 19%. È un segno di speranza concreto, frutto di un lavoro condiviso.
Cosa l’ha colpita di più in questi anni?
Forse la consapevolezza che, in un contesto così fragile, i cambiamenti richiedono anni, forse generazioni. Ma se non si inizia da qualche parte, non si arriva mai. E allora capisci che anche solo esserci, condividere la fatica, lavorare con le persone, è già un atto di fede e di speranza.