Idee
Sguardi commossi. La guerra per Domenico Quirico, storico inviato
Per Domenico Quirico, l’inviato di guerra può non avere una narrazione oggettiva. Seppur con un occhio “limitato”, c’è spazio per accogliere racconti non cinici
IdeePer Domenico Quirico, l’inviato di guerra può non avere una narrazione oggettiva. Seppur con un occhio “limitato”, c’è spazio per accogliere racconti non cinici
«L a commozione è un elemento necessario del giornalismo. Senza non ci sarebbe nemmeno il giornalismo». Le sfumature, i dettagli, i nomi squarciano il nero della fuliggine e il rosso del sangue. I reportage fotografici crudi e crudeli di Evgeniy Maloletka dopo il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol. I racconti veicolati dagli occhi e dalle parole dei reporter. Per Domenico Quirico, inviato di guerra, caposervizio degli esteri per La Stampa, il giornalismo al fronte parte da questo assioma: «Non c’è una narrazione che non sia automaticamente anche partecipazione. Non esiste il giornalista al di sopra delle parti e aggiungerei anche menomale perché altrimenti produrrebbe servizi mediocri. Nel momento stesso in cui si sceglie da che lato del conflitto raccontare o sei costretto a sceglierne uno anche perché semplicemente questi ti fanno entrare e gli altri no, prima o poi quello che vedi diventa tuo, anche emotivamente. Vai a vedere un palazzo che è stato dilaniato da un missile e magari ci sono rimasti sotto i civili, mamme e bambini: non si può cinicamente limitarsi a prendere atto di quello che è successo».
Come la stiamo raccontando la guerra in Ucraina? E soprattutto cosa di questo conflitto stiamo restituendo alla narrazione? Ci sbilanciamo verso l’emotività o è un equilibrio costante con la razionalità?
«Abbiamo raccontato quello che siamo riusciti a vedere o che ci lasciano vedere, come avviene sempre in tutti i conflitti. È una guerra tra nazioni, tra eserciti regolari con delle strategie comunicative degli uni e degli altri che rispecchiano i ruoli di aggredito e aggressore. Dalla parte ucraina c’è apparentemente più possibilità di vedere, dal fronte russo zero: io non ho visto persone che stanno dall’altra parte e raccontano; sì un paio di servizi e filmati provenienti da Mariupol ma certamente con i russi e i filo-russi a monitorare. Ci vuole del fegato. La massa di informazioni che arriva da una parte è sproporzionata, ma per scelta dei russi stessi che hanno da raccontare le loro verità ed evitano di avere tra i piedi giornalisti che magari possono tentare di andare al di là di quello che la Russia vuol far circolare. È un gioco complicato, ma antico da quando è iniziato il giornalismo di guerra: durante la guerra di Crimea, a metà Ottocento, i generali inglesi detestavano gli inviati, erano visti come “rompiscatole” e facevano di tutto per ostacolarli. È sempre andata così, a meno che l’inviato stesso non venga strumentalizzato per raccontare qualcosa che serve al potere».
Con la diffusione dei social è cambiato il ruolo del reporter ed è cambiato il modo di raccontare una guerra rispetto agli scenari bellici del secolo scorso?
«Chi ce l’ha raccontata la guerra del Golfo? Gli americani hanno utilizzato il metodo più semplice dicendoci “state indietro e quando ci fa comodo venite a vedere le carcasse di quello che abbiamo annientato e così potete scrivere”. Non so se ci sono difformità, ma ripeto questa è una guerra tra nazioni ed è diverso dal combattere l’Isis, Al Qaida o quello che è successo in Ruanda tra gli Hutu e i Tutsi. Qui ci sono soldati ed eserciti strutturati e all’interno di questa struttura c’è chi si occupa dell’elemento comunicazione. Una volta che ti metti il giubbotto con su scritto press, hai il tesserino e tieni il pass per non andare da nessuna parte – perché alla fine vai dove ti vogliono mandare – accetti delle regole del gioco in cui tu cerchi più o meno di divincolarti e non è detto che ci riesca. Quello che vediamo è quello che ci fanno vedere e vale anche per i buoni non solo per i cattivi. Tenendo sempre presente che le vittime per me sono gli ucraini, quante perdite militari hanno avuto? Non si sa. Sappiamo dei civili, certo, perché “serve” a far capire all’opinione mondiale che i russi sono delle carogne che bombardano violando i codici di guerra. Sapere le perdite, aiuterebbe a capire quanto può durare la loro eroica resistenza, ma mi domando perché nessuno se lo chiede? Magari mi sfugge, è stato detto e scritto… Bisogna essere molto onesti e dire “mi hanno mandato lì, ho documentato quello che ho visto, cosa c’era un chilometro dopo non l’ho visto”. Questo bisognerebbe dirlo a inizio di ogni articolo o reportage».
Dopo oltre un mese di immagini disperate per il lettore che si trova al di qua del mondo c’è il rischio di essere vittima di “bulimia”? Di rigettare quello che vede?
«Questo rischio in questo caso è minore rispetto agli altri conflitti perché si svolge a distanza geografica molto ristretta. La gente lo sente come suo, c’è qualcosa di egoistico nell’attenzione di questa guerra che va al di là del senso della misericordia che non abbiamo avuto per altri gruppi umani coinvolti in vicende analoghe. Pensiamo alla minaccia dell’atomica. Questo costituisce un correttivo rispetto al fastidio di trenta giorni di notizie».

Andrea Casavecchia, sociologo: «La comunicazione è sempre stata un’arma della propaganda. Lo vediamo nella censura applicata in Russia, dove non si può utilizzare la parola guerra o invasione, ma “operazione militare speciale”. Lo vediamo nella capacità comunicativa del presidente ucraino che riesce a rivolgersi al suo popolo, tramite video diffusi online, per incoraggiarlo nella resistenza e agli altri Paesi per chiedere sostegno. Con questa guerra osserviamo che le notizie oggi si connettono tra loro e diventano materiale con il quale alimentiamo la nostra capacità di interpretare la realtà. I piani si intrecciano le piattaforme digitali e i massmedia tradizionali si integrano. Tutti diventiamo comunicatori e tutti costruiamo contenuti. Le informazioni che inviamo sono sempre costruite. Per questo bisogna avere maggiore accortezza».
Anche le realtà del mondo cattolico attive nella comunicazione sono in enorme difficoltà. Per sostenerle, la Conferenza episcopale del Triveneto, su iniziativa della commissione regionale Comunicazioni sociali e d’intesa con le sezioni trivenete di Ucsi (Unione stampa cattolica) e Fisc (Federazione settimanali cattolici), promuove una raccolta fondi per supportare due realtà comunicative.
Lo sguardo di Domenico Quirico: «Guardiamo la comunicazione dei protagonisti: il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per esempio parla troppo. Ha avuto una straordinaria trovata con le conferenze online, il senso di unione con gli altri parlamentari; ora, non sono esperto di comunicazione legata alla propaganda, ma se continui a raccontare ossessivamente non necessariamente ottieni attenzione, ma anzi al contrario disattenzione».

In soccorso arriva, puntualmente un neologismo inglese per dare forma e nome ai nostri sentimenti e sensazioni. La guerra in Ucraina piomba dopo due anni e oltre di pandemia che già ci aveva reso fragili e vulnerabili. Dal 24 febbraio, ora più ora meno, alcuni di noi hanno iniziato a leggere con compulsione notizie che arrivavano da Kiev e non solo. Giorno e notte, prima di svegliarsi e prima di andare a dormire. È il doomscrolling, termine che unisce il concetto di sventura (doom) e l’atto dello scorrimento verticale sul display (scroll) e indica il bisogno di “ingurgitare” informazioni anche se ci rattristano, ci scoraggiano e ci deprimono. «È successo con i primi mesi di pandemia, sta succedendo ora – è il giudizio di Luca Pezzullo, presidente dell’Ordine degli psicologi veneto – Uno scorrere continuativo e ansioso nel tentativo di capire o essere rassicurati. Questo è un problema perché noi ci costruiamo una rappresentazione degli eventi sui nostri vissuti e i social hanno cambiato l’infosfera e lo scenario dell’informazione, e non sono necessariamente utili, anzi a volte aumentano lo stato di confusione, di incertezza e di esposizione a una serie di informazioni di cattiva qualità. Sono strategie pervasive, convincenti o attivanti dal punto di vista emotivo: ci attivano le parti subcorticali del cervello, quelle più legate al sistema arcaico o viscerale, rispetto a quelle corticali deputateall’analisi razionale delle informazioni».
Dopo oltre un mese di conflitto e di informazioni, un utente rischia l’assuefazione o, peggio ancora, di “normalizzare” la guerra, di lasciarla in sottofondo? Come si fa a non normalizzare i bombardamenti?
«Non c’è una strategia specifica perché questo è un ciclo di usufruizione dell’informazione che è tipico in ogni grande emergenza. Nella primissima fase c’è l’evento che è iperattivante e ci porta a una maniacale consultazione e spasmodica attenzione al tema. Però il nostro sistema neuro-cognitivo non può reggere a lungo questa pressione: dopo alcuni giorni c’è una fase di reflusso, si riducono le risorse, è un “tirarsi indietro” per risparmiare le energie cognitive, e può diventare anche un rifiuto all’informazione stessa. Il problema è che quando si aprono gli spazi della complessità fattuale, cioè il programmare, organizzare, il comprendere – il momento in cui deve entrare in gioco la parte corticale – le persone sono già stanche e tendono a ridurre la loro attenzione, si ancorano a poche risposte semplici e rassicuranti per evitare un’elaborazione complessa».
Rispetto all’attenzione iniziale, sento che mi sto legando meno all’emotività, tendo a distaccarmi dal leggere ogni giorno di quello che succede in Ucraina. Sono una cattiva persona?
«È la cosa più fisiologica che ci sia. Io ho lavorato nell’ambito delle emergenze assieme alla Protezione civile e una delle cose che ho visto è che ci dobbiamo ricordare noi per primi che siamo esseri umani ed è legittimo assumere questo comportamento. Certo razionalmente possiamo pensare di andare sul fronte, capire nei dettagli quello che succede, non vogliamo farci scavalcare, ma legittimiamoci nella nostra normalità, non dobbiamo essere superuomini davanti all’emergenza. Agiamo, ma con paure e limiti e ansie ed è rinfrancante poterselo dire».
Quali anticorpi deve adottare un genitore o un insegnante per raccontare e se raccontare la guerra ai più piccoli? «Va calibrato in base all’età, ma il principio generale è che non bisogna fare l’errore di non parlare di quello che è successo o interrompere il discorso, cambiare canale in tv per paura che possano impressionarsi – sottolinea Luca Pezzullo – . I bambini si rendono subito conto che qualcosa non va e la cosa che fa più paura è che addirittura i genitori hanno paura. Loro così come gli insegnanti devono essere luogo sicuro dove fare domande, evitando gli aspetti più angoscianti. Ci si può focalizzare non solo sul brutto, ma anche sul bene: le storie di aiuto, di accoglienza e di cura dell’altro sono elementi di speranza».