Già l’Atlantic, due anni fa, con un editoriale di Ian Bogost annunciava che «l’era dei social media sta finendo». Questo non significa – ovviamente – che l’iconcina di Facebook scomparirà dal vostro cellulare, ma che la centralità, l’imponenza e anche la pervasività dei grandi colossi della rete – nei quali tutti vedevano tutti – che si percepiva a metà dello scorso decennio oggi ha lasciato spazio a uno scenario molto più frastagliato, confuso e diviso. La digitalizzazione è cresciuta: passiamo sempre più tempo nelle app e nelle piattaforme rispetto un tempo, solo che ciascuno ha le sue, a seconda dell’età, interessi, passioni, consumi. Accanto a questo fenomeno di atomizzazione – che fa crescere a dismisura camere dell’eco e incomunicabilità dentro le società stesse – sono due le direttrici lungo le quali il cambiamento, rispetto a dieci anni fa, è stato maggiore. La prima è il continuo aumento della percentuale di persone che stanno sui social, li guardano, li frequentano ma non scrivono, non pubblicano, non commentano mai. “Lurker”, li chiamava lo slang dell’Internet degli esordi. Facebook e compagni tentano disperatamente di far produrre contenuto alle persone, ma l’utente medio è sempre meno loquace, mentre emergono le minoranze aggressive di troll e gridatori, che rendono l’esperienza dei social sempre meno gradevole. La seconda direttrice è l’estrema passività, il “doom scrolling”, ovvero affidarsi all’algoritmo – che arriva a conoscerci molto bene – per consumare tutto ciò che ci viene propinato, sempre meno nella forma di riflessioni scritte o link ad articoli e sempre più come video veloci senza sostanza. I reel e le stories hanno trasformato i social da fonti di informazione a mezzi di ottundimento autoimposto, come i giochetti che si appendono sopra le culle dei neonati.
Andrea Canton Giornalista, fa parte di Weca-Webcattolici Italiani