“In questo momento in cui le leggi internazionali faticano ad essere applicate e non rispettate e diritti inalienabili, come quello allo studio, alla libertà di movimento, all’autodeterminazione e persino alla vita, vengono infranti, ci è rimasta solo una bussola morale ed etica a indicarci la via”. Sono le parole del giovane barese, Antonio Lapiccirella, 35 anni e attivista nell’ambito della giustizia sociale e climatica da 15, che il mese scorso è partito a bordo dell’imbarcazione Handala, della ong Fredoom Flotilla Coalition, per una missione umanitaria alla volta di Gaza insieme ad altri 20 civili di diverse nazionalità. Com’era prevedibile la marina israeliana ha bloccato l’iniziativa impedendo alle imbarcazioni di giungere a destinazione. Ma quel tentativo non è stato del tutto vano. “Ho pensato che fare parte di una missione, con tutta la fisicità di un’imbarcazione, e avvicinarsi a Gaza – dice il giovane al Sir – anche in maniera politica e simbolica, potesse rompere questo velo di impotenza”.
Non solo. “Le azioni della nave Madleen, cui aveva preso parte anche Greta Thunberg, intercettata dalla marina israeliana lo scorso giugno, e della Handala hanno ispirato tanti gruppi sociali e politici nel mondo. Questo vuol dire che diverse missioni sono in preparazione, non solo della Fredoom Flotilla”, rete internazionale che dal 2010 tenta di rompere il blocco navale israeliano imposto sulla striscia di Gaza. “Qualcosa succederà prima della fine dell’estate e spero abbia un impatto il più largo possibile. Non c’è più tempo, siamo prossimi alla distruzione di Gaza e della popolazione palestinese”.
Il nome dell’imbarcazione, Handala, che indica una pianta del deserto che produce un frutto amaro, ricorda ancora Antonio, richiama l’iconico personaggio creato dal vignettista Naji al-Ali, nel 1969: “Handala è un bambino scalzo, con i vestiti strappati, simbolo di resistenza e di identità palestinese, che volta le spalle all’orrore. Un orrore obiettivo – spiega – composto spesso da accordi economici e investimenti”. Una piaga che si può combattere “affidandosi ai tempi lenti della giustizia e della politica, o tentando di fare qualcosa nel proprio piccolo. Il blocco militare di fronte Gaza – afferma – esiste perché rispettato. Fino a che si dà per assunto che non si possa fare niente, si accetta lo stato delle cose così come è. Invece 21 civili adesso e altri 12 due mesi fa, senza alcuna protezione governativa, hanno dimostrato che questo sistema di convinzioni è molto traballante”.
Inoltre, “tutta la missione si fa forte non tanto dell’aiuto logistico, mediatico, tecnico, politico, dei gruppi di base che lavorano sui territori, ma di tutta la solidarietà che arriva da terra, nei porti di Europa e di Italia toccati prima dalla Madleen e poi dalla Handala. È una forza che ritorna. Ce la siamo portata dietro nel tentativo, di trasmetterla, almeno emotivamente, al popolo palestinese. Da parte di tutti i gruppi solidali, poi, al nostro ritorno, e al momento del sequestro, c’è stata un’attivazione forte, si è aperta una visione di possibilità che genera un po’ di speranza. Anche noi, persone normali, se insieme, possiamo fare qualcosa e rompere quella percezione di impotenza che ci tiene divisi e fermi, spezzandoci le gambe” dichiara Antonio sottolineando, ancora, l’importanza della consegna delle chiavi della città di Bari, lo scorso 4 agosto, a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. “Non è stato solo un gesto simbolico, ma un impegno politico della città di Bari, che noi seguiremo, sperando che si possa propagare come esempio. È questo è il punto di ogni missione: cercare di dare forza a tutti i piccoli pezzi di solidarietà”.