“Erano le 6 del mattino quando il 7 ottobre 2023 sono stato svegliato dal rumore delle bombe. Nella Striscia di Gaza ci siamo abituati, ogni tre o quattro mesi capita, io sono cresciuto così. Ho chiamato un mio amico per chiedergli se saremmo andati a lavorare, mi ha risposto che ero pazzo e che a lavorare non ci saremmo tornati più. Per la prima volta ha avuto ragione lui”: inizia così Joseph – nome di fantasia –, giovane della Striscia, il suo racconto in una parrocchia toscana lo scorso 4 luglio.
“Vogliamo solo vivere in pace”. Non è facile per lui parlare, “è una cosa che non siamo abituati a fare, quando ci diciamo qualcosa della guerra lo facciamo in segreto, a bassa voce e senza dilungarci troppo”. Ad ogni modo, rassicura: “La mia famiglia non appartiene a nessun partito, siamo solo civili, vogliamo solo vivere in pace”. Nel 2023, sei mesi li aveva passati in Italia per imparare la lingua e studiare, “alla scadenza del mio permesso di soggiorno potevo scegliere se rimanere da clandestino o tornare a casa – racconta –. Avevo la possibilità di studiare in Egitto, allora ho passato lì due settimane, poi, non so perché, ho deciso di tornare a Gaza”. “Uscire dalla Striscia è molto difficile, ma per entrare non ci sono problemi – spiega –. Per due settimane ho lavorato, riprendendo l’occupazione che avevo lasciato, poi il 7 ottobre è arrivato”. Quel giorno “tutte le persone intorno a noi iniziarono a scappare – racconta –, era un sabato. Noi fino al mercoledì siamo rimasti nella nostra casa, avevamo fiducia che la situazione potesse migliorare. Nel frattempo, la casa di mia sorella, che con la sua famiglia era andata a rifugiarsi in chiesa, venne bombardata e rasa al suolo. Allora decidemmo di spostarci”.
La vita in parrocchia a Gaza. Inizia qui il racconto della vita nel rifugio della parrocchia cattolica della Sacra Famiglia, insieme ad altre 600 persone, mentre, poco lontano, la parrocchia ortodossa ospitava altri 500 cristiani. Le notti lì sono insonni e il giorno si cerca il riposo, mentre i sacerdoti organizzano la vita della comunità, tengono impegnate le persone ad ascoltare racconti biblici, spiegano la Parola del giorno, celebrano la messa e rimangono all’erta verso le 19 per carpire un po’ di connessione internet, che possa permettere di ricevere la quotidiana telefonata di Papa Francesco. “A dicembre la parrocchia venne circondata dai militari – continua Joseph –: per andare in bagno dovevamo strisciare per terra e potevamo farlo soltanto di notte. Lì, se qualcuno viene visto dentro ad un edificio, viene ucciso, a prescindere da chi possa essere”. Un giorno poi “ci accorgemmo che entravano delle schegge dalle finestre. Mia sorella, mentre scappava, è tornata indietro a prendere suo figlio e una scheggia ha attraversato la sua gamba destra e le ha ferito la sinistra. Finché i militari non si sono allontanati, non siamo potuti uscire. Dopo due settimane, in un ospedale vicino, sovraccarico di feriti, è stata operata e le hanno disinfettato la ferita”.
Una via di uscita. È da quel momento che la famiglia di Joseph inizia a cercare una via per uscire da Gaza. “Come comunità cristiane, nonostante la gente venisse costretta a spostarsi dal nord al sud della Striscia, avevamo scelto insieme di non lasciare le chiese, perché non volevamo ritrovarle distrutte, come era accaduto alle nostre case. Mia sorella, però, doveva partire per curarsi” dice. Per uscire dal valico di Rafah, al tempo, veniva imposto di pagare 5 mila dollari a testa: «All’inizio volevamo vendere tutto quello che avevamo, anche i nostri vestiti, per poter uscire, poi però il valico è stato bombardato e chiuso” ricorda. Da gennaio a maggio, invece, il cibo iniziò a mancare:
“Trovavamo solo mangimi per animali, che impastavamo per creare delle focacce. Li mangiavamo come se fosse stato pane – racconta –. Da un lato chiedevamo a Dio perché ci aveva scelti per vivere tutto questo, dall’altro vedevamo che non ci abbandonava. Io mangiavo questi mangimi, ma non sono mai andato a dormire senza aver mangiato”.
“La messa alle 18 e il rosario erano diventati momenti importanti: quella situazione da noi ha alzato il livello della fede e della speranza” spiega.
L’arrivo in Italia. Anche dalla Toscana, intanto, chi conosce Joseph non smette di pregare e a settembre arriva la notizia che attraverso un’organizzazione internazionale il gruppo dei fratelli gazawi è riuscito ad uscire dalla Striscia da un valico usato solo per le merci prima del 7 ottobre. “Ci siamo arrivati in ambulanza – spiega Joseph –. Normalmente per attraversare la Striscia ci vuole mezz’ora, noi ci abbiamo messo 12 ore e il viaggio fino all’Italia, dove siamo arrivati in aereo partendo dalla Giordania, è durato una settimana per via dei continui controlli”. “La mia storia, nonostante tutto – conclude – non è delle più gravi. Adesso la situazione è molto peggiorata, ogni giorno veniamo a sapere di qualche nostro conoscente che è stato ferito o che si è dovuto allontanare dalla chiesa per qualche motivo e nessuno sa se tornerà vivo. Tutto questo lì è molto normale”.