Idee
«Di chi sono i nostri giorni?». È la domanda che, nel film La Grazia di Sorrentino, viene rivolta al presidente della Repubblica, Mariano De Santis, chiamato a una difficile scelta: quella di promulgare o meno una legge sull’eutanasia che il Parlamento ha approvato. Nel film, presentato alla mostra di Venezia lo scorso agosto, questa domanda viene posta al presidente dalla figlia, che è apertamente a favore della legge e che mal sopporta le indecisioni e le titubanze del padre, uomo di fede profonda.
«Di chi sono i nostri giorni?» è una domanda chiave. Non solo per comprendere il film di Sorrentino, ma per discernere due visioni sul tema del fine vita e, conseguentemente, sull’eutanasia e sul suicidio assistito. Se “i miei giorni” sono miei, e solo miei, allora sta a me, e non ad altri, decidere che cosa farne, in ogni caso e comunque. Se “i miei giorni” non sono solo miei, ma anche degli altri (della famiglia, di una comunità o, per chi crede, di Dio), allora decidere che cosa farne non spetta solo a me, ma chiede di tener conto anche di queste altre presenze. Dinanzi a esse, e quindi non solo alla mia coscienza, si avvertono delle responsabilità. Nel senso del termine: si avverte di dover dare risposta e rendere conto anche ad altri e non solo a sé stessi.
Ora, la piega che sta prendendo il “nostro” mondo va nella direzione indicata: i miei giorni sono miei (e non di altri). Il nostro mondo è l’Europa e il Nord America ed è solo uno dei mondi possibili, non affatto l’unico. Noi siamo sempre più anziani e siamo sempre meno, mentre l’Africa o l’Asia, ad esempio, continuano a crescere. Nelle società occidentali, il trend è quello dell’affermazione perentoria dell’autodeterminazione dell’individuo: in tutte le fasi della sua esistenza, compresa quella della sua fine. Non stupisce, pertanto, il consenso mediatico che si respira, anche nel nostro Paese, attorno al caso delle gemelle Alice ed Ellen Kessler che in questi giorni – il 17 novembre, data da loro accuratamente preparata – hanno posto fine alla propria vita con un’iniezione letale. Si tratta di un suicidio medicalmente assistito, permesso dalle leggi attualmente vigenti in Germania (una cosa simile, a oggi, non è possibile in Italia).
«I miei giorni sono miei», dunque. Se ritengo che la mia vita non sia più degna di essere vissuta, posso decidere autonomamente di spegnerla. Mi chiedo quanto possa incidere, su una tale visione delle cose, la percezione di sentirsi soli. Se è vero che è un valore il riconoscimento dell’individuo e delle libertà della persona, a che mi serve tutto questo se vivo la mia vita in un deserto di solitudine, senza legami e senza relazioni? La strada da percorrere, allora, è mostrare, nei fatti e non nelle parole, che la vita vale la pena essere vissuta “insieme”, dentro a una comunità.
«Va riaccesa la passione di far comunità, di pensarsi insieme, che è anche difficile e faticoso, come tutte le cose impegnative, anche perché si tratta di condividere la fraternità in un mondo di persone abituate a vivere sole, a parlarsi in remoto, a far girare tutto intorno all’io», ha affermato il card. Matteo Maria Zuppi di recente ad Assisi. Se scopro e vivo la bellezza della comunità, i “miei giorni” non saranno più solo “miei”, ma saranno condivisi e quindi più umani.