Chiesa
Il settembre di 102 anni fa rappresenta una delle pagine più oscure della storia moderna del Giappone. Non soltanto per il dramma del terremoto che devastò la regione del Kantō, nell’isola di Honshū, ma soprattutto per ciò che avvenne nei giorni immediatamente successivi: il massacro sistematico di migliaia di coreani.
Per ricordare questo tragico episodio, spesso ignorato o negato, il Japan Christian Council della NCC East Asia Reconciliation and Peace Committee, con il sostegno di 17 organizzazioni – tra cui la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale nipponica – ha promosso una veglia di preghiera e commemorazione. Alla celebrazione hanno partecipato oltre 130 persone, in presenza e online, unite nella memoria, nella preghiera e nella riflessione.
Alle ore 11.58 giapponesi del 1° settembre 1923 la terra tremò per circa cinque minuti. Un sisma devastante di magnitudo 7.9, ricordato da allora come il Grande terremoto del Kantō, causò tra le 100.000 e le 140.000 vittime e oltre 37.000 dispersi. Cinquecentosettantamila abitazioni crollarono e il 45% di Tokyo fu distrutto. Incendi, alimentati dai tifoni e dalla fuoriuscita di gas, divamparono fino al 3 settembre.
In questo scenario drammatico si innestò un’ulteriore tragedia, stavolta causata dall’uomo. Già dal 2 settembre, il panico, la xenofobia e quelle che oggi definiremmo fake news alimentarono un focolaio di violenza che covava nella società giapponese. Dopo l’annessione della Corea da parte del Giappone nel 1910, molti coreani si erano trasferiti nel Sol Levante in cerca di lavoro, ma erano diventati oggetto di una propaganda che li descriveva come agitatori e sovversivi. Questo clima di ostilità fu il terreno fertile su cui, subito dopo il sisma, si diffusero false voci: gli immigrati coreani avrebbero avvelenato i pozzi, appiccato incendi, saccheggiato negozi e persino complottato rivolte contro il governo nipponico.
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Le notizie, amplificate dal passaparola e da alcuni giornali, scatenarono una caccia all’uomo per individuare i cosiddetti futei senjin (“coreani sovversivi”). Con il pretesto di sopprimere le presunte rivolte fu dichiarata la legge marziale con editto imperiale.
L’esercito, affiancato da milizie civili, organizzò posti di blocco e, per individuare i coreani, veniva usato un test linguistico: tutti quelli che non riuscivano a pronunciare correttamente la frase jūgo-en gojussen (“quindici yen e cinquanta sen”) erano identificati come coreani e giustiziati sul posto. Ne vennero uccisi circa 6.000. Rimasero coinvolti e persero la vita anche 700 cinesi, scambiati per coreani, e persino alcuni giapponesi provenienti da zone rurali, che – per via della pronuncia particolare del loro dialetto – subirono la stessa sorte.
Durante la veglia, i relatori hanno sottolineato come la memoria di questi eventi resti ancora oggi una ferita aperta. Il rappresentante della Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale ha infatti biasimato l’atteggiamento del governo, ribadendo la necessità di “un riconoscimento ufficiale e di un percorso di riconciliazione”.
Il governo giapponese, infatti, non ha mai riconosciuto ufficialmente il massacro e continua a minimizzarne la portata, senza assumersene la responsabilità. Un atteggiamento che ostacola gli sforzi per una completa riconciliazione e mantiene viva una dolorosa frattura tra Tokyo e Seul.
Non è mancata la riflessione autocritica per aver assistito, come cristiani, passivamente alla spirale di violenza del 1923, senza opporsi con fermezza a quelle atrocità. Gli interventi che si sono susseguiti nel corso della commemorazione hanno voluto anche richiamare l’attenzione sui pericoli del presente. È stato sottolineato che, così come nel 1923 voci infondate e propaganda xenofoba prepararono il terreno alla violenza, anche oggi in Giappone si percepisce il rischio di una nuova ondata di discriminazione.
Sono stati ricordati i recenti comizi elettorali in occasione delle elezioni per la Camera dei consiglieri del luglio 2025, durante i quali sono stati espressi apertamente sentimenti di ostilità verso gli stranieri. Anche le recenti modifiche legislative restrittive rischiano di porre immigrati e rifugiati in una condizione di marginalità e di illegalità.
La dichiarazione finale ha poi manifestato la preoccupazione che “gli stessi errori del passato possano ripetersi”.
Il parallelo tra il clima sociale che precedette il massacro e quello che oggi sembra emergere nel Paese invita a vigilare. Solo attraverso memoria, preghiera e impegno concreto è possibile costruire una società che rifiuti la xenofobia e scelga la via della pace.