Idee
Stiamo assistendo all’inizio di una nuova fase della competizione globale per il potere nucleare, che potrebbe preludere a una pericolosa e destabilizzante corsa agli armamenti tra le grandi potenze? Ad accendere la miccia gli Stati Uniti che hanno annunciato l’intenzione di riprendere i test nucleari, segnando un possibile ribaltamento di decenni di moratoria e suscitando preoccupazioni internazionali. Donald Trump, inizialmente promotore della ripresa, ha poi precisato che la decisione diventerà operativa solo se altri Paesi faranno lo stesso, trasformandola così in un messaggio di deterrenza. L’annuncio sembra fare il paio con quello che ha già colpito osservatori e analisti, infatti l’ordine presidenziale non è stato rivolto al “Dipartimento della Difesa”, come da tradizione, bensì al “Dipartimento della Guerra”, dato che nel corso del suo mandato, aveva già disposto che il termine Defense venisse sostituito in alcuni documenti ufficiali con War Department, motivando la scelta con la volontà di “chiamare le cose con il loro nome”. Un cambiamento apparentemente semantico, ma che rivela una concezione più diretta e priva di filtri morali del potere militare e della violenza organizzata. Da un punto di vista etico e psicologico, questa scelta linguistica mette a nudo una contraddizione profonda:
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perché l’atto di uccidere milioni di persone — attraverso un ordigno atomico o una decisione strategica — appare più “facile”, o almeno più accettabile, di un singolo omicidio compiuto faccia a faccia?
Albert Bandura, padre della teoria del moral disengagement, spiegava che l’essere umano tende a costruire barriere cognitive che permettono di agire contro i propri principi morali. La disumanizzazione dell’altro, la diffusione della responsabilità lungo catene gerarchiche e la ricostruzione morale delle proprie azioni sono tra i meccanismi più efficaci per neutralizzare il senso di colpa.
“La distanza — scriveva Bandura — non è solo spaziale, ma anche morale: riduce l’impatto emotivo dell’azione e rende più gestibile la colpa”.
Un altro fenomeno, noto come psychic numbing o “collasso della compassione”, descritto dallo psicologo Paul Slovic, mostra come
la nostra empatia diminuisca man mano che cresce il numero delle vittime. Una singola persona suscita commozione e pietà; mille, un milione, diventano numeri.
È il paradosso che spiega perché, nel dibattito pubblico, un attacco atomico resti un’ipotesi “astratta”, mentre un omicidio singolo continua a scuotere le coscienze. Anche nella storia militare e giudiziaria, la distanza morale è stata costruita con cura per alleggerire la coscienza di chi uccide. Nei plotoni di esecuzione, ad esempio, è tradizione che uno dei fucili sia caricato a salve: nessuno sa chi, tra i tiratori, abbia sparato il colpo mortale. Un espediente semplice ma potentissimo, che permette a ciascuno di pensare “forse non sono stato io”. Lo stesso principio è applicato nelle esecuzioni moderne, dove i comandi di attivazione sono duplici o triplici, e solo uno è effettivamente collegato al sistema letale. Così, chi preme il pulsante può dire, con un sollievo ambiguo, “forse non ero io a decidere la morte”. È la stessa logica che opera nei livelli decisionali della guerra moderna: più la responsabilità è condivisa, più si dissolve il peso morale dell’atto. Lo studioso Dave Grossman, nel suo celebre saggio On Killing, ha dimostrato che la distanza fisica riduce drasticamente la resistenza psicologica all’uccidere.
“È più facile premere un grilletto a trecento metri che guardare negli occhi la vittima”,
scrive. Le tecnologie moderne — droni, missili, ordigni a lunga gittata — hanno moltiplicato quella distanza, trasformando la guerra in un esercizio di controllo remoto. Lo schermo sostituisce il campo di battaglia, e l’azione diventa un comando, non un incontro. Tuttavia, gli studi condotti sugli operatori militari a distanza dimostrano che il prezzo psicologico non scompare: cambia forma. Ansia, stress, dissociazione e senso di colpa posticipato emergono in modi nuovi, segno che la coscienza non può essere completamente anestetizzata. L’illusione della distanza totale — geografica o morale — è fragile.
La decisione di riprendere i test nucleari, in questo contesto, appare come un passo ulteriore verso l’astrazione del male: l’atto distruttivo viene traslato su scala strategica, sottratto alla percezione diretta delle sue vittime.
Eppure, le conseguenze sarebbero tutto fuorché astratte: inquinamento radioattivo, rischio di escalation, impatto sanitario e ambientale globale. Più che una scelta di sicurezza, sembra un gesto che riafferma il potere dell’uomo sulla vita altrui, fondato sull’idea che la distanza possa assolvere dalla colpa. È la stessa illusione che la tradizione cristiana denuncia da secoli: quella di credersi padroni del male solo perché lo si compie da lontano. Papa Leone XIII, nell’enciclica Humanum genus (1884), ammoniva che
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“dalla carità, come da una fonte, scaturiscono tutte le virtù; e quando essa vien meno, non resta che la violenza e l’odio che distruggono la convivenza umana”.
Parole che oggi risuonano come un giudizio profetico su un’epoca in cui la distanza tecnica rischia di sostituire la prossimità morale, e la freddezza strategica diventa la nuova forma della crudeltà. Se “uccidere milioni” appare più semplice di un omicidio, è perché la distanza, fisica o psicologica, continua a illuderci che la responsabilità si possa dividere. Ma la coscienza, prima o poi, presenta il conto. E il compito della comunicazione, della politica e della fede resta quello di restituire volti ai numeri, nomi alle statistiche, carne alla storia. Solo così si potrà impedire che la distruzione diventi un gesto amministrativo, e la guerra un linguaggio normale.