Idee
Ucraina. Lesia Romaniuk, infermiera ad Alano di Piave. «Per alcuni la guerra è madre»
Lesia Romaniuk, insieme ad altre due connazionali, è infermiera a Casa Sant’Antonio abate. A marzo 2022 erano arrivate appena in tempo
Lesia Romaniuk, insieme ad altre due connazionali, è infermiera a Casa Sant’Antonio abate. A marzo 2022 erano arrivate appena in tempo
Lesia Romaniuk ora parla fluentemente l’italiano. Lo scorso anno la pronuncia suonava incerta, i pensieri s’increspavano, tutto era schiacciato dalla disperazione in cui era precipitata con le altre due infermiere ucraine del centro servizi per anziani Sant’Antonio abate di Alano di Piave. Facendole arrivare direttamente dal loro Paese a fine gennaio 2022, la Fondazione omonima che gestisce la struttura nel Bellunese le aveva assunte per carenza di personale sanitario, irreperibile in Italia. Scampate per un soffio alla guerra, avevano lasciato casa, ma soprattutto affetti e legami. Dentro all’angoscia dei primi giorni dallo scoppio del conflitto, avevano raccontato alla Difesa (pagina 32 di domenica 13 marzo 2022) il disorientamento e la disperazione di fronte all’attacco di Putin all’Ucraina. Oggi Lesia Romaniuk continua a vivere con un’altra delle due colleghe, la madre e il figlio Oleh nella canonica della frazione di Campo, grazie alla Fondazione Sant’Antonio Abate che si sta prendendo dall’inizio carico dell’affitto.
«Mia madre e Oleh sono riusciti ad arrivare a metà marzo. Lei ha trovato quasi subito lavoro come badante a Belluno, mentre mio figlio da settembre frequenta il primo anno all’Iti Negrelli di Feltre. Lui fatica ancora con la lingua e sono riconoscente a tutti i suoi professori per l’aiuto e la comprensione che gli stanno offrendo». La vita ad Alano in questi dodici mesi è continuata a scorrere con l’ottenimento della patente e l’acquisto di un’auto con i risparmi messi da parte di mese in mese «perché qui, tra i monti, senza macchina non si va da nessuna parte».
Il pensiero e la preoccupazione restano in Ucraina, in particolare a Ivano Frankivs’t: «Mio marito non può uscire dal Paese anche se non è al fronte per problemi fisici, ma se dovesse essere reclutato sarebbe pronto a partire. Mio fratello ha due bambini molto piccoli e non se l’è sentita di fuggire. Ogni mese faccio una grande spesa all’Iper Tosano e spedisco il pacco per mantenerli. Per fortuna in casa hanno un caminetto e riescono a scaldarsi, anche se la corrente viene interrotta per giorni interi». Adesso il cuore è spezzato lungo una trincea: «Il corpo di mio cugino di 43 anni è lì e nessuno riesce a recuperarlo per dargli sepoltura». La fine di questo massacro continua a non vedersi all’orizzonte, la gente è stanca, non immagina più il futuro: «Per qualcuno la guerra è come una madre che continua a generare denaro e io credo che le armi siano il vero motivo per cui si ha tutto l’interesse a fare in modo che si combatta all’infinito. Qui in Italia vedete le immagini migliori. La guerra è peggio di quanto vi viene mostrato e ne state osservando solo una piccolissima parte».
E neppure il domani qui in Italia è certo per Lesia Romaniuk, Inna Yanchyk e Svetlana Polishchuk che rischiano tra meno di un anno di dover cercare un altro lavoro in ambiti diversi o di ritornare nell’ipotesi peggiore in Ucraina. Vivono sulla pelle una contraddizione. Il Ministero della salute italiano ha dato loro il nulla osta per lavorare nel settore sociosanitario come infermiere, ma a condizione che entro due anni dal permesso di soggiorno i titoli di studio venissero riconosciuti sulla base della legislazione italiana. «Gli uffici ucraini che dovrebbero produrre i documenti richiesti sono chiusi o non funzionano. Siamo bloccate con la burocrazia italiana da mesi. Io mi auguro che l’appello che abbiamo inviato al Ministero venga accolto. Oltre a essere infermiera, io sono medico e ho una specializzazione in pneumologia. Da più di un anno lavoriamo come dipendenti a Casa Sant’Antonio abate e ormai siamo perfettamente inserite nel sistema. L’Italia ha bisogno delle nostre professionalità, eppure tutto risulta complicato e incomprensibile».
«Non vogliamo regali, anzi caro Babbo Natale come regalo vogliamo riabbracciare papà». Avevamo salutato così, qualche giorno prima del 25 dicembre, Ira Lupu mentre ci confidava la letterina scritta dai due figli Kevin e Ivan. La loro storia l’avevamo raccontata nel numero della Difesa del 25 dicembre: dopo aver salutato la campagna di Odessa e suo marito Sergio, ha viaggiato per due giorni con i suoi ragazzi, per arrivare a Padova e riabbracciare la sua amica Barbara Caron conosciuta tanti anni fa. Kevin e Ivan devono averlo desiderato più di ogni altra cosa il loro papà, al punto che è successo per davvero, inaspettatamente: «Sì, mio marito Sergio è con noi a Padova – esclama di gioia Ira – E tra l’altro è arrivato a cavallo tra Natale e Capodanno! Questa è una fortuna, ci siamo riuniti e possiamo stare un po’ più sereni». Sergio fino a oggi non era stato ancora arruolato nell’esercito ucraino sia perché ha continuato a lavorare nei campi di grano, indispensabile per l’economia e il sostentamento, sia perché ha una invalidità. Ed è proprio per questo, dopo un arzigogolato giro di carte e burocrazia, che è riuscito ad arrivare legalmente in Italia e a congiungersi così con la famiglia. La gioia di stare assieme però è appesantita costantemente dalle vicissitudini dell’Ucraina e dei loro connazionali: «Ci fa davvero tanto male sapere che a un anno dall’inizio della guerra non c’è ancora una trattativa, un negoziato, con i politici che non vogliono ascoltarsi – confessa Ira – Viviamo come in una bilancia: oggi pendiamo da un lato, domani magari dall’altro. Non si possono fare progetti, anzi vorremmo anche farli, dobbiamo ricostruire il nostro Paese, togliere le macerie, ma prima questa guerra deve terminare. E quando terminerà?». Il loro futuro ha gli occhi del presente dei loro figli Kevin e Ivan: «Dopo l’immediato inserimento scolastico, hanno iniziato a frequentare la scuola Vivaldi. Pensiamo a farli studiare e dar loro un po’ di pace».
La solidarietà della parrocchia di San Girolamo di Padova non si è mai fermata: continua la raccolta di indumenti e generi alimentari da inviare a Leopoli o donare agli ucraini in città. Le donazioni sono il martedì, giovedì e sabato dalle 13 alle 16.
Venerdì 24 febbraio, la Chiesa di Padova, attraverso la Pastorale sociale, partecipa alla fiaccolata di pace in programma a Padova, con inizio alle ore 18, dal sagrato del Cattedrale fino al Municipio, assieme alla società civile.