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Un linguaggio al passo con i tempi. Le parole sono determinanti per raccontare la fede
Le parole sono determinanti per raccontare la fede
IdeeLe parole sono determinanti per raccontare la fede
«Babbo, ma cosa significa “debitore”?». Così mio figlio, 5 anni (mamma toscana, da cui il mio appellativo), domenica sera mentre recitiamo il Padre nostro a letto. Prima reazione del sottoscritto: meno male che non mi ha chiesto che cosa significa «venga il tuo Regno» o, ancora peggio, il senso di «sia fatta la tua volontà». Subito dopo però ho iniziato a chiedermi come rispondere alla sua domanda, senza tradire troppo il senso della preghiera di Gesù, almeno per come l’ho capita in questi quarant’anni… Sbrigata la pratica al meglio delle mie possibilità, concedendomi alle braccia di Morfeo dopo un weekend intenso – come sa bene chi convive con tre under 6 – mi si è riaccesa alla mente una vecchia riflessione su fede e linguaggio. Complici formule antiquate e analfabetismo di ritorno, che cosa capiscono della messa non solo i bambini ma anche gli adulti che la frequentano? E delle singole preghiere? La stessa vita pastorale rappresenta una sfida per un giornale come il nostro: dovremmo spiegare molto di più i termini specialistici che utilizziamo parlando di iniziative, progetti, eventi, scelte. E lo stesso, anche se in forma minore, accade a un operatore pastorale che si ritrovasse a raccontare al vicino di casa non frequentante o a un amico non credente (perché) e che cosa fa ogni settimana in parrocchia. Insomma, le parole che scegliamo sono determinati per raccontarci e anche per annunciare il Vangelo in questo mondo iper informato ma sempre meno in grado di ascoltare e capire cosa legge. Il filosofo e teologo domenicano Dominique Collin ha scritto un libro che tutti i cristiani dovrebbero leggere: Il cristianesimo non esiste ancora (2020, Queriniana, pp. 196, euro 22). Si tratta di un librofiume attraverso le cui pagine l’autore argomenta la tesi contenuta nel titolo, spesso citando il grande filosofo danese Kierkegaard. E proprio di costui ricorda un passaggio nel quale il pensatore rievoca i guardiani notturni che un tempo giravano di notte per le strade di Copenhagen e per indicare l’ora citavano a vuoto strofe tratte dai salmi o da altre «opere devote». Scrive Kirkegaard: «Quale speranza c’è per chi, oggi, insegna la dottrina cristiana, o quali prospettive si aprono ai predicatori del Vangelo nella nostra evoluzione, in cui i servitori della Parola saranno presto, con i loro dogmi cristiani, nella situazione di guardiani notturni con le loro strofe edificanti a cui nessuna presta attenzione; e dunque il canto serve solo per indicare l’ora». Il rischio, osserva Collin, è che il cristianesimo sia ridotto a un modo di parlare, a un linguaggio per iniziati, una visione del mondo, in attesa di un marketing efficace. Questo pericolo si corre non certo quando si recitano, o si rievocano, formule consolidate nel tempo, com’è appunto il Padre nostro, o tanti passaggi del messale. Semmai si fa più prossimo quando si prega, si spiega la Parola, si annuncia il Vangelo senza che ci sia davvero la fede, ma solo secondo uno stanco deviazionismo a cui siamo stati ben educati fin da quando eravamo in fasce. Come ci sentiamo oggi, al cospetto del Cristo o parte di una grande operazione di comunicazione che dura da duemila anni? Da questa risposta dipende molto, di certo il futuro della Chiesa e anche la risposta a quella domanda che il vescovo Claudio ha posto all’inizio del Sinodo diocesano che sabato 15 darà il via alla stagione delle sessioni plenarie dell’Assemblea: che cosa Il Signore vuole oggi dalla Chiesa di Padova? Prima ancora di preoccuparci per i temi, per i voti, per la capacità di arrivare a decisioni operative, capaci di far dialogare il Vangelo con la nostracultura, mi domando se i quasi 400 “sinodali” saranno in grado di parlare un linguaggio trasversale alle provenienze (dalle prealpi al mare), alle generazioni, alle condizioni di vita. Sarà necessaria la creatività della fede, la stessa che ci permetterà di superare anche i luoghi comuni del bigottismo che oggi non parlano più a nessuno.