In Italia, la sanità pubblica continua a rappresentare una delle infrastrutture sociali più solide e vitali del Paese, nonostante le difficoltà croniche di organico e risorse. Ogni anno, secondo i dati del ministero della Salute, oltre 18 milioni di persone accedono ai pronto soccorso degli ospedali italiani: numeri che raccontano una sanità viva, operosa, spesso silenziosa. Eppure, troppo spesso, l’opinione pubblica è raggiunta solo dalle notizie di “mala sanità”, che pure esistono ma non restituiscono la proporzione reale tra errori e cure riuscite, tra disservizi e dedizione quotidiana. Un esempio eloquente è l’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, uno dei più antichi e grandi complessi ospedalieri della Capitale, con oltre 500 posti letto e un pronto soccorso che accoglie più di 90mila accessi l’anno. Qui, come in tanti altri ospedali italiani, medici, infermieri, operatori socio-sanitari e volontari compiono ogni giorno gesti di professionalità e umanità che difficilmente fanno notizia, ma che rappresentano la vera forza del servizio sanitario nazionale. Una giornata trascorsa tra le corsie del pronto soccorso di un ospedale come il San Giovanni diventa un’esperienza che interroga e lascia un segno.
Forse dovrebbe essere proposta nelle scuole, per comprendere quanta fatica, passione e devozione si nascondano dietro quella “H” rossa che illumina le notti delle nostre città.
È un mondo dove ogni ruolo, dal medico all’infermiere, dal tecnico al barelliere, è parte di un ingranaggio umano e professionale che non si ferma mai. Certo, non mancano le eccezioni: chi si atteggia o chi dimentica l’ascolto. Ma ciò che prevale è la dedizione. Medici e infermieri che affrontano turni estenuanti anche di 14 ore con calma e competenza, tecnici che scherzano per rassicurare un paziente impaurito, operatori che con delicatezza si prendono cura di chi non è più autosufficiente, personale che deve tenere a bada con gentilezza e calma un paziente che durante la notte da in escandescenza assalito dai fantasmi che ha nella mente e, nel frattempo, una persona affetta da Alzheimer stesa sul lettino chiama la Polizia al telefono denunciando un uomo che è entrato in casa sua urlando, non ricordandosi che è in ospedale. Una psichiatra si avvicina con educazione a due ragazze giovanissime, arrivate volontariamente in ospedale per chiedere aiuto, assalite da pensieri autolesionisti. “Hai intenzione di fare qualcosa contro la tua persona?”, la domanda della dottoressa a cui segue la risposta “non credo di volerlo fare. Non penso di averlo mai voluto fare, ma non escludo che io lo abbia fatto”.
La “buona sanità” spesso non si vede, ma è quella che tiene insieme un sistema complesso, dove, nonostante tutto, la qualità dell’assistenza italiana rimane tra le più alte d’Europa.
Nel corso di ventiquattr’ore accade di tutto: incidenti stradali, ictus, infarti, crisi respiratorie, shock anafilattici.
Vita e morte si rincorrono in un equilibrio fragile, affidato alla competenza di chi, sotto pressione, non smette di tentare.
“Quarantasei minuti di massaggio cardiaco, quattro scariche…”, racconta un infermiere, mentre un uomo, fino a un’ora prima intento a sistemare il giardino di casa, viene dichiarato deceduto. Poco dopo, un altro paziente lotta contro una reazione allergica gravissima. Un’ora prima era a fare la spesa, adesso intorno a lui si muovono sei persone, coordinate da una dottoressa che dà indicazioni rapide e precise. Le mani si alternano tra aghi, flebo, elettrodi, monitor. Dopo ore di interventi, il pericolo rientra. Quando la stessa dottoressa gli chiede come si sente, lui risponde: “Male”. Una nuova crisi lo coglie, e il personale torna in azione, instancabile. Alla fine, la moglie entra in lacrime a salutarlo. “Ha rischiato la vita”, le dicono. Lui minimizza, ma gli si legge negli occhi che si è reso conto di cosa stesse capitandogli. Nel frattempo, le ore scorrono. La notte è fatta di lampeggianti continui davanti alla finestra che significano ambulanze in arrivo, infermieri che seguono costantemente le corsie e che consolano persone che si svegliano prese dai dolori o non ricordandosi dove sono e perché sono lì. C’è chi piange, chi ringrazia, chi si aggrappa alla vita. Lì dentro tutto è ritmo, concentrazione, empatia.
È il volto della sanità italiana che non fa clamore ma che regge ogni giorno il peso del Paese.
Un’Italia che, tra mille limiti, continua a credere nella cura come atto di servizio, nel prendersi carico dell’altro come dovere e come scelta.