IdeeDopo l'acqua granda del 12 novembre si scaldano gli animi sul futuro della città, ma la grande opera invocata dalla politica potrebbe non bastare. I cambiamenti climatici e l'innalzamento dei mari incombono, senza contare i problemi strutturali di un progetto sperimentato male. Se funzionerà, il Mose avrà una gestione molto conflittuale. Le maree chiederanno chiusure frequenti a danno dell'ecosistema e della portualità
Adesso è corsa contro il tempo. In Laguna l’eco della settimana orribile che ha visto Venezia sommersa quattro volte da maree sopra i 130 centimetri non si è ancora spenta che già si levano da più parti richieste di una forte accelerazione da imprimere ai lavori del Mose: quelle 78 paratoie non possono giacere sul fondale, alle bocche di porto, fino al 31 dicembre 2021. La città non sopporta l’idea di altri due autunni – oltre a quello in corso – con un rischio alluvione che si intensifica ogni anno a causa dei cambiamenti climatici.
Ma davvero basterà completare i decennali cantieri di un’opera che è già costata alla collettività la bellezza di 5 miliardi e mezzo di euro, per salvare la città più bella del mondo? La politica, sfilando in numerose passerelle in galosce, non ha dubbi. «Siamo al 92-93 per cento dell’opera – ha detto il premier Conte il 12 novembre – e guardando all’interesse pubblico non c’è che da prendere una direzione nel completamento di questo percorso». « Aspettare ancora fino al 2021 mi sembra tanto», ha aggiunto Luca Zaia due giorni dopo dichiarando che per finire i lavori mancano 400 milioni ancora non stanziati. E via così da Salvini («Mettiamoci tutti insieme per finire il Mose») al ministro delle infrastrutture Paola De Micheli che ha nominato la nuova commissaria Elisabetta Spitz.
A essere molto cauti sulla conclusione dei lavori sono invece gli scienziati. Luigi D’Alpaos, docente emerito di ingegneria idraulica all’Università di Padova, nel 2006 era a fianco del Comune di Venezia nel serrato confronto con il Consorzio Venezia Nuova che poi sfociò nella decisione di costruire il Mose da parte del governo Prodi. «Avevamo proposto una serie di interventi progressivi e graduali per la gestione dei flussi di maree che solo all’ultimo stadio avrebbe portato alla chiusura delle bocche di porto. Purtroppo è stato tutto inutile. Giunti a questo punto, anche io chiedo che l’opera sia finita quanto prima e vediamo se sarà efficace».
Stefano Boato, emerito di urbanistica allo Iuav, dal 1998 al 2018 è stato membro della Commissione di Salvaguardia del Ministero dell’ambiente per Venezia. «Sarei molto cauto prima di chiedere una veloce conclusione del Mose – commenta – Ci sono situazioni gravi che rischiano di scoppiarci in mano appena dopo la fine dei lavori».
Ciò di cui parla Boato è stato spiegato, nel corso di un affollatissimo incontro organizzato dall’Ecoistituto Alexander Langer con le associazioni ambientaliste alla Scoletta dei calegheri venerdì 22 novembre, dall’ingegnere idraulico Paolo Vielmo, ex Tecnomare, esperto di opere off shore e autore con il collega Vincenzo Di Tella di Il Mose salverà Venezia? «Grazie all’accesso agli atti che abbiamo effettuato di recente – ha sottolineato – abbiamo avuto conferma di una tesi già espressa nei primi anni Duemila, prima dell’inizio dei lavori: sulle paratoie del Mose, una volta in funzione, si ripercuoterà la risonanza subarmonica, un fenomeno per cui l’energia del mare non si trasferisce alla struttura solo nel picco dell’onda, bensì con periodo doppio. Il Consorzio Venezia Nuova aveva sempre negato questa possibilità, invece dal progetto ufficiale del Mose si vede come gli studi eseguiti in Olanda, a Delft, dallo stesso Cnv provassero il contrario». Non solo. Vielmo ha spiegato che i test condotti a Voltabarozzo sono stati condotti su scale (1:10 e 1:30) in cui fenomeni così complessi non possono essere verificati. Che cosa si rischia? «Impossibile dirlo in via teorica, non siamo in grado di prevedere a quale livello di sollecitazione sarebbero sottoposte le paratoie», chiosa Vielmo, ma le possibilità sono molte: dalla rottura del singolo elemento, fino al distacco dal cassone. Da qui l’esposto alla procura di Venezia effettuato dal Codacons una decina di giorni fa: si chiedono ulteriori verifiche prima di gettare in fondo al mare altro denaro pubblico.
«Se funzionerà – riprende D’Alpaos – il Mose, pensato per le sole alte maree eccezionali, avrà una gestione conflittuale: l’aumento del fenomeno potrebbe richiedere l’attivazione frequente delle dighe con il rischio di danneggiare l’ecosistema lagunare e la portualità». E la vita dell’opera potrebbe essere breve per le mareggiate innalzate dal riscaldamento del pianeta. Per questo gli scienziati tornano al tema del riequilibrio della laguna, prescritto dalle Leggi speciali fin dal 1973 e mai realizzato. I principali interventi da compiere consisterebbero nell’innalzare le quote alle bocche di porto, oggi assai basse e piatte per i lavori del Mose e per la navigazione delle grandi navi, e nel Canale dei petroli fino al porto di San Leonardo.
«A breve sarà discusso un progetto per mettere in sicurezza almeno l’insula di San Marco – riprende Boato – Basterebbe installare valvole di non ritorno in quattro punti, il più delicato è quello sotto Palazzo Ducale, e alzare il bordo a 1,15 metri per mettere in salvo il cuore della città».
L’ipotesi più suggestiva è quella di Giuseppe Gambolati, docente a ingegneria a Padova. L’idea di salvare Venezia dall’acqua con l’acqua lo ha portato a progettare un sistema (tutto da verificare) di 12 pozzi tutti a una decina di chilometri dal centro città, che immettendo acqua in pressione a 6-800 metri di profondità potrebbero rialzare la città fino a 25-30 centimetri. Al momento di tratta di un modello matematico che andrebbe verificato nella gronda, ma sistemi simili sono già stati testati negli Stati Uniti, in Florida e nel delta del Mississippi.
«In trent’anni, il Canale dei petroli ha demolito la morfologia lagunare intatta da almeno 500 anni». Lo sostiene il prof. Lorenzo Bonometto, già direttore del museo di scienze naturali di Venezia. Il canale stesso e la navigazione hanno reso di fatto un’ampia porzione di Laguna mare aperto. E ora esiste un progetto per arginare il canale e innalzare l’isola delle Tresse dove depositare i fanghi di scavo.
