Idee
«La debolezza fondamentale della civiltà occidentale è l’empatia, lo sfruttamento dell’empatia». È una frase di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che ha fatto discutere per la sua cristallina spietatezza. Ma è proprio da qui che Giles Duley, fotografo e attivista inglese, ha scelto di iniziare la sua riflessione nell’aula magna dell’Università di Padova, lo scorso 19 giugno, durante l’incontro pubblico “Tessere la pace”, evento collegato alla mostra “Out of place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo”, promossa dalla Fondazione Imago Mundi in collaborazione con il Comune e l’Ateneo e visitabile gratuitamente fino al 31 luglio presso il Cortile antico di Palazzo del Bo e il giardino pensile di Palazzo Moroni a Padova.
«Quando abbiamo discusso di quella frase, amici e colleghi erano furiosi: io invece ero contento – confessa Duley con il suo consueto sorriso ironico – Proprio allora, infatti, ho capito che persone come Musk sono terrorizzate proprio da storie come quelle che racconto. Hanno paura dell’empatia, ma è proprio questa la nostra forza: la capacità di sentirci connessi alla sofferenza degli altri». Da oltre vent’anni racconta storie; le sue fotografie non ritraggono eserciti o scontri a fuoco, ma il volto umano della guerra: i corpi feriti, gli sguardi spezzati, la disperazione silenziosa di chi sopravvive. Eppure, prima di dedicarsi al fotogiornalismo umanitario, Duley viveva un’altra vita: era un giovane fotografo richiesto dalle riviste glamour e musicali, al seguito di star come i Prodigy, gli Oasis e Marilyn Manson. «Avevo tutto, ma sentivo di non avere nulla. Un mondo fatto di luci, lustrini e pose costruite che però mi lasciava un senso di vuoto sempre più profondo». Nel 2004 lascia tutto e inizia a documentare le conseguenze delle guerre: non le armi, ma ciò che resta. Le sue immagini ritraggono madri, bambini, famiglie spezzate, persone segnate dalla fame, dalla violenza e dalla perdita. Nei loro sguardi però si legge qualcosa di più forte della sofferenza: una dignità profonda, che resiste anche quando tutto è stato tolto. Nel 2011, mentre si trova in Afghanistan per documentare la vita delle comunità colpite dal conflitto, mette il piede su una mina.
L’esplosione gli causa l’amputazione di entrambe le gambe e del braccio sinistro: «Quello che mi ha cambiato davvero è però venuto dopo: 46 giorni in terapia intensiva, 37 ope razioni, un anno di dolore, rabbia, riabilitazione. È lì che ho ricevuto un dono che non avevo chiesto: la resilienza». Da allora, quella parola è diventata il centro del suo lavoro: non come etichetta eroica ma come esperienza concreta e condivisa. «Non mi interessa essere visto come un eroe o una vittima. Il punto fondamentale non è la mia storia, ma quelle che ho incontrato. Due mesi dopo il mio incidente, a pochi chilometri di distanza, un bambino di sette anni che stava andando a scuola è saltato anche lui su un’altra mina, perdendo una gamba e un braccio. Quando l’ho fotografato, anni dopo, non sono riuscito a trattenere le lacrime; io ero in Afghanistan per scelta, lui no: per questo sento il dovere di raccontare storie come la sua».
Una responsabilità che per Duley è un imperativo etico: nel suo lavoro non cerca lo shock ma l’umanità, e da esso trapela anche una forte spiritualità: «Non appartengo a una fede specifica, ma credo nella bontà dell’essere umano. E negli anni ho visto che spesso chi vive le condizioni più estreme ha anche una fede più forte, qualcosa che ti ancora profondamente alla vita». Il suo sguardo, profondo e sempre pieno di rispetto, si posa spesso sulle donne, capaci nella sua visione di incarnare nel senso più alto lo spirito di sacrificio come dono di sé. «Un giorno in un campo profughi in Uganda ho visto una madre contare i fagioli che dovevano bastare alla famiglia per una settimana. Li divideva in mucchietti per ognuno, ma non ce n’era uno per lei. Eppure intorno a lei i bambini ridevano, giocavano. Era un luogo di amore, forza e gioia». È da qui, da queste micro-storie che sembrano lontane ma che parlano a tutti, che può nascere la pace. Una pace tessuta, non imposta, fatta delle stesse aspirazioni che accomunano l’umanità. «Cosa cerca davvero chi ha perso tutto? – conclude Duley – Vuole solo mandare i figli a scuola, un lavoro e un tetto, amare, vivere. La maggior parte delle persone vuole solo vivere in pace: come me, come voi». Ecco dunque cosa lega i suoi scatti, i suoi racconti e il suo corpo, diventato esso stesso testimonianza, racconto: la consapevolezza che l’umanità è una forza silenziosa, condivisa, profonda. E che la pace si costruisce a partire da lì.
Londinese, classe 1971, Giles Duley ha cominciato la carriera fotografando star della musica per Vogue e Sunday Times. Nel 2004 la svolta: lascia il mondo delle celebrità per raccontare l’impatto umanitario dei conflitti. Collabora con ong internazionali, si fa testimone dei più fragili. Nel 2011, mentre documenta l’Afghanistan, viene ferito da un ordigno, perdendo entrambe le gambe e un braccio. Non smette però di fotografare: rilancia anzi il suo impegno con la Legacy of War Foundation, ong che sostiene le comunità colpite dalla guerra. Nel 2022 è nominato global advocate dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per le persone con disabilità nei conflitti, mentre nel 2023 diventa consulente per Atelier Jolie, il progetto di moda etica di Angelina Jolie. Nel 2024 Duley è stato nominato membro dell’Ordine dell’Impero Britannico (Mbe) per i servizi resi ai sopravvissuti ai conflitti. Appassionato (è ideatore e protagonista del programma The One Armed Chef), scrittore, attivista, Duley è oggi una delle voci più autorevoli del fotogiornalismo etico. E della resilienza come forma di resistenza e di speranza per un mondo più equo e accogliente.
«Oggi più che mai, l’umanità grida e invoca la pace. È un grido che chiede responsabilità e ragione e non deve essere soffocato dal fragore delle armi e da parole retoriche che incitano al conflitto». Sono le parole ferme e decise utilizzate da papa Leone XIV durante l’Angelus di domenica 22 giugno. «Ogni membro della comunità internazionale ha una responsabilità morale: fermare la tragedia della guerra prima che essa diventi una voragine irreparabile» ha aggiunto.