StorieDal 6 aprile al 16 luglio 1994 c’è stato uno dei più grandi massacri della storia dell’umanità. 800 mila i morti. Le testimonianze dei giovani che nacquero quell’anno
In un giorno di metà aprile del 1994 Gaudence non era ancora nata. Sarebbe successo il mese dopo, il 25 maggio. La madre, affaticata dalla gravidanza, si trovava in cucina per preparare qualcosa da mangiare al marito e al figlio che, appena fuori casa, cercavano di sapere qualcosa di più degli ultimi avvenimenti. Si fermò un’auto, scesero alcuni uomini armati di machete, chiesero al padre e al bambino se ci fosse qualcun altro dentro casa. Il bimbo, guidato dall’istinto di protezione, disse di no. A quel punto gli uomini, senza dire una parola, uccisero entrambi, e se ne andarono. La madre non si accorse quasi di nulla. Sentì solo alcuni rumori e si recò a controllare. Vide la sua famiglia senza vita distesa a terra. La donna, guidata a sua volta dall’istinto di sopravvivenza, scappò dal retro della casa e si rifugiò in una delle grandi distese di papiro che si trovano in Rwanda. Nel frattempo gli uomini tornarono, un vicino di casa disse loro che c’era anche la moglie. Volevano finire il “lavoro”, ma non trovarono nessuno. La mamma di Gaudence visse per oltre un mese bevendo l’acqua degli acquitrini e mangiando qualche banana dopo le cinque del pomeriggio, quando le milizie paramilitari interahamwe, formate da hutu, terminavano il loro turno di lavoro: sterminare e depredare i tutsi a colpi di machete. 800 mila morti, 250 mila donne violentate, 100 mila orfani, 80 mila vedove. Quando si ascoltano storie come queste, in un villaggio spoglio come le stanze di una piccola casa di mattoni, buia e senza mobilia, c’è qualcosa che si insinua dentro allo stomaco e lo restringe fino a toglierti l’aria. È l’incapacità di capire cosa succede all’essere umano, di come la malvagità possa prendere il sopravvento su qualsiasi spiraglio di luce che tenti di entrare. Tutte le guerre sono uguali ma non tutte hanno un’ombra enorme che fagocita un’intera parte di popolo, privandola del senno e scagliandola sull’altra parte di popolo, con la quale, fino alla sera prima, si era giocato a calcio insieme, si era condivisa una birra, si era avuta la cortesia di salutare un vicino di casa, ci si era sposati. In un Paese grande all’incirca come la Sicilia e così dolce nelle colline che lo attraversano, per cento giorni, dal 6 aprile al 16 luglio del 1994, tutti gli elementi di un film dell’orrore hanno preso il sopravvento: una radio che inneggia dagli altoparlanti gracchianti dei villaggi a “uccidere gli scarafaggi”, bande di uomini che avanzano e riflettono l’acciaio dei machete al sole, migliaia di cadaveri mutilati accatastati lungo il ciglio delle strade, il lavoro da assassino scandito dagli stessi orari di un operaio, l’euforia delle milizie a fine giornata tra birre e lamiere rubate. È la banalità del male, così come descritto da Hannah Arendt, che priva totalmente l’essere umano di responsabilità, trasformandolo in un tecnico esecutore di ordini, frutto di anni di propaganda, e lo rende forte dentro al gregge. Nello stesso anno nacquero migliaia di ragazzi e ragazze che oggi trascinano, nei loro pensieri, l’eredità di quel periodo. Hanno perso uno o entrambi i genitori e i fratelli, hanno visto impazzire la madre o il padre durante gli anni, sono diventati silenziosi perché forse non ci sono le parole adatte a spiegare quello che si prova. Aline vive nel distretto di Kamonyi. Si ripara, nelle ore più calde, sotto il tetto in lamiera della sua casa, il sole trafigge le tende gialle e Aline entra ed esce a controllare la mamma che, seduta su un muretto, ha lo sguardo fisso sul paesaggio e abbassa il capo alle domande della ragazza. La donna, durante il massacro, scappò dal distretto per rifugiarsi in un campo profughi e lì nacque la figlia. Di ritorno, dopo alcuni mesi, ricominciò la sua vita ed ebbe altri due figli, gemelli, morti poco dopo. Da questo punto in poi la donna incomincia a soffrire di disturbi psichiatrici gravi che la portano a essere accudita giorno e notte da Aline, in mancanza di strutture che, in Africa, sono pressoché assenti. L’elenco di traumi per decine di migliaia di famiglie come questa è un peso insopportabile, un’eredità che si somma a quelle delle generazioni precedenti. Tuttavia Aline è una combattente e grazie all’aiuto di Avsi, Ong italiana che opera in tutto il mondo con programmi di cooperazione allo sviluppo, ha potuto studiare per diventare estetista e parrucchiera. Ancora non è riuscita a esercitare il mestiere, perché deve stare vicino alla mamma e perché mancano programmi di aiuto imprenditoriale a favore delle nuove generazioni, perciò cerca di sopravvivere aiutando in cucina in un progetto di supporto.
In molte parti del Paese l’agricoltura rappresenta l’80 per cento dell’economia. Le donne rimaste vedove, in alcuni casi, si sono riunite in piccole cooperative come nel caso del progetto “Semi di speranza” promosso da Jardin de Los Niños, Ong di Padova che, assieme alla Caritas locale, favorisce la coltivazione e la vendita di prodotti agricoli a Ruhengeri, distretto diventato famoso per le visite ai gorilla, nel Parco nazionale dei vulcani, ai confini con il Congo dove l’M23, un’organizzazione paramilitare della Repubblica democratica del Congo, al cui interno si serrano file di ruandesi, sta combattendo contro il governo congolese per il comando del Kivu, regione ricca di giacimenti minerari. Le tensioni sono continue e dopo 31 anni sono diventate come un fiume sotterraneo. Attraversano il Rwanda da Nyagatare a Nyaruguru e sono, per ora, tenute saldamente sotto controllo dal regime del presidente Kagame, in carica fin dal luglio del 1994 quando, come generale, ricompattò la resistenza e liberò il Paese. Rimise i tutsi al potere ed escluse gli hutu, uno scenario che si ripete ma che rimane ancora stabile grazie al ruolo del Rwanda, descritta come la Svizzera d’Africa grazie alle politiche di attrazione di capitali sviluppate negli ultimi anni. Un’apparente rinascita dopo la distruzione. La famiglia di Jeanine ha vissuto la stessa cosa. Fuggiti in un campo profughi in Congo, dove, quasi da un giorno all’altro si ammassarono più di un milione di persone, dopo alcuni mesi fecero ritorno alla loro casa. Trovarono solo macerie. Le milizie interahamwe distrussero e rubarono tutto. Jeanine nacque in quei giorni, a ottobre. Con un po’ di fortuna il padre riuscì a rientrare in un programma del Governo che gli affidò una piccola casa dalla quale ripartire. Jeanine visse i primi anni dell’infanzia ignara delle vicende che avevano preparato la sua venuta al mondo, finché la sorella più grande le svelò cosa fosse stato il genocidio. Da allora – racconta Jeanine – ogni giorno inizia con la paura che ricomincino le “tensioni delle piogge di aprile”, facendo riferimento a quando è iniziato il genocidio e al mese in cui cadono abbondanti piogge e ogni giorno, assieme al marito, accarezza il figlio e si raccomanda che abbia buone relazioni con tutti gli essere umani.
Dal 6 aprile al 16 luglio 1994 il Rwanda visse uno dei più grandi genocidi della storia. In soli cento giorni, 800 mila tutsi e hutu moderati vennero sterminati a colpi di machete, asce, lance o mazze. L’odio razziale fu il movente ideologico. Il Rwanda, nel 1924, venne affidato dalla Società delle Nazioni ai belgi che, avvalendosi delle teorie fisionomiche dell’epoca, conferirono la condotta del Paese ai tutsi, alti, magri e perciò più affini ai canoni occidentali, invece che agli hutu, bassi, tozzi e perciò considerati inferiori. I tutsi costituiscono così l’élite sociale e culturale del Paese. Nel 1933 i belgi distinsero le etnie sui documenti di identità. Nei decenni successivi si preparò – tra la decolonizzazione, la diaspora dei tutsi e nei rovesciamenti di regime – ciò che accadde poi nel 1994. La notte del 6 aprile l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, di ritorno da un colloquio di pace fu abbattuto a Kigali. Fu il pretesto, preparato da tempo, dell’inizio dei massacri. L’esercito regolare e le milizie paramilitari interahamwe cominciano lo sterminio, nessuna potenza occidentale è intervenuta.
Fotografo documentarista, i suoi lavori, realizzati in tutto il mondo, sono pubblicati nei più importanti magazines italiani e internazionali. Collabora con Ong per la produzione di reportage editoriali in ambito cooperazione.
Andrea Signori
