Mosaico
San Pietro nell’arte. In qualsiasi epoca troveremmo tracce iconografiche del primo Papa
Una figura che ha influenzato la storia dell'arte
MosaicoUna figura che ha influenzato la storia dell'arte
Per poter comprendere quanto Pietro, il primo dei Pontefici, abbia influenzato l’arte, non è necessario un metodo cronologico. In qualsiasi epoca troveremmo tracce iconografiche, o del suo martirio, o mentre viene preso per mano da Gesù perché, incredulo, non riesce a camminare sulle acque, o nella pesca miracolosa, o nel momento dell’apparizione dell’angelo che lo libererà dalle catene.
Josepe de Ribera, meglio noto come lo Spagnoletto, tra il 1613 e il ‘14 dipinge proprio quest’ultima scena, come d’altronde aveva già fatto Raffaello in un’opera conservata nei Musei Vaticani cento anni prima, mettendo bene in evidenza la grata composta dalle sbarre, per accentuare la potenza di un evento che sovverte ogni legge materiale.
Lo Spagnoletto accentua le sensazioni fisiche e la corporeità di qualcosa che non è leggiadro racconto di fate, ma accadimento in un oscuro carcere che conosce solo sporcizia, buio, spessore delle mura. Eppure qui, sembra voler dire l’artista, nonostante quella che chiameremo poi gravità e massa, accade qualcosa di impensabile. Almeno dal punto di vista materialistico. L’angelo è reale, tanto reale che appare ai nostri occhi come un agile corpo giovanile che sta per prendere tra le sue mani un Pietro che forse sta appena svegliandosi da un sonno consolatore, o dal pianto. La sua barba è quella canonica, folta, grigia con sfumature più chiare, e il suo volto, per lo meno quella parte che appare nell’olio conservato alla Collezione Borghese di Roma, non è quello di uno studioso o di un raffinato intellettuale. Una fedele traduzione artistica non solo del brano degli Atti degli Apostoli, ma dell’intera narrazione evangelica.
Perché anche quando si affaccia sullo scenario dell’iconografia cristiana più antica, ad esempio nel tondo in un cubicolo delle catacombe di Santa Tecla -siamo poco distanti da San Paolo fuori le mura, nel quarto secolo della nostra era- è lì che cogliamo l’inizio di tutto, di quella raffigurazione di un pescatore non giovane, con capelli e barba bianchi.
E i grandi si rifaranno a questo modulo iconografico: tutti abbiamo di fronte la splendida, e terribile, Crocifissione di Pietro di Caravaggio custodita nella chiesa di santa Maria del Popolo nel primo Seicento; terribile perché, come aveva ben notato un esperto del calibro di Roberto Longhi, coloro che stanno compiendo quello scempio sembrano degli operai al disbrigo di qualche faccenda, e non degli aguzzini.
Sessant’anni prima Michelangelo terminava il suo ultimo affresco, nella cappella Paolina in Vaticano: il suo Pietro è un uomo ancora piuttosto atletico, con una aureola di bianchi capelli a circondare una evidente calvizie e con la tradizionale barba bianca; un volto, che, come sarà per Caravaggio, compie un ultimo inaudito sforzo, girandosi verso chi osserva, con un indimenticabile sguardo, sofferente ma anche accigliato, come se stesse ammonendo chi guarda. Come se gli stesse trasmettendo il messaggio di una condivisione fino alla fine di un Sacrificio che ha cambiato la storia di molti.
Ovviamente non possiamo fare a meno di parlare, anzi, di guardare, il San Pietro di Giotto, non solo quello che taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote, siamo ai primi del Trecento, nella cappella degli Scrovegni a Padova, ma soprattutto quello del mosaico della Navicella nella basilica di San Pietro, cui potrebbe aver partecipato anche Cavallini, o qualcuno della sua scuola: Pietro, raffigurato nei modi che sappiamo, è salvato dalle acque da un Cristo che guarda frontalmente, quasi tornato icona bizantina, perché è lui che conosce davvero ogni cosa.
E che sta prendendo per mano, come a dire, ecco il mio successore, un uomo immerso nei timori del suo essere nel qui e nell’ora.