Tutte le guerre sono brutte e le pagano soprattutto i civili. Ma alcune guerre sono oltre che brutte anche dimenticate, come quella che da due anni si combatte in Sudan. Con conseguenze enormi sulla popolazione civile: tra i 12 e i 14 milioni di persone sfollate, circa 11 milioni internamente, gli altri tra Egitto, Sud Sudan e Ciad. E sette milioni di bambini che non vanno a scuola da oltre due anni. E poi la fame, perché con la produzione agricola praticamente ferma e il valore della moneta a picco, metà del Paese, circa 25 milioni di persone, fatica a trovare da mangiare una volta al giorno. «Numeri impressionanti e gravi. Come grave è che la comunità internazionale non abbia il tempo di discuterne» racconta padre Diego Dalle Carbonare, comboniano che sentiamo mentre si trova a Port Sudan. La guerra civile in Sudan è scoppiata il 15 aprile 2023, quando nella capitale Khartoum iniziarono a scontrarsi l’esercito sudanese e il gruppo Rapid Support Forces, guidati rispettivamente da Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, che per un anno e mezzo avevano guidato il Paese insieme. Da allora gli scontri hanno provocato decine di migliaia di morti e il peggioramento delle condizioni di vita dei civili. «Dopo che a fine marzo l’esercito regolare ha ripreso in mano il controllo di buona parte della capitale, ci si era un po’ tutti convinti che l’esercito stesse vincendo la guerra e che fosse solo questione di tempo prima che riuscisse a spingere le Rsf sempre più verso ovest». L’impressione era che la guerra sarebbe continuata nel Darfur, regione già martoriata, ma che il centro del Paese avrebbe ritrovato stabilità. «In questo quadro, nel quale c’era anche per noi la speranza di tornare a Karthoum in tempi brevi, ci sono state due cose inaspettate: prima il gruppo Rsf ha fatto un accordo con i ribelli dell’Spla (Esercito di liberazione del popolo di Sudan, ndr) dei Monti Nuba, dimostrando di non aver intenzione di cedere, poi, da inizio di maggio sono arrivati ad attaccare Port Sudan». Quello che padre Dalle Carbonare racconta è esperienza diretta: prima attacchi con droni “kamikaze”, piccoli droni che si fanno esplodere sul bersaglio, poi anche con droni “strategici”, piccoli aerei di 5 metri di lunghezza che costano 4-5 milioni di dollari ciascuno, con i quali Port Sudan è stata attaccata tutti i giorni dal 4 al 19 maggio. «Attacchi quotidiani, per lo più di notte, e che hanno scombinato l’impressione che la guerra fosse in chiusura. L’esercito continua sì a riportare vittorie a Karthoum e ha ormai il controllo dell’intera città, e quello è un passo in avanti, ma le Rsf non mollano affatto». È del 22 maggio la notizia che sono state trovate fosse comuni con 465 vittime delle violenze delle Rsf. In queste condizioni di estrema precarietà aggravate dall’indifferenza internazionale, la comunità cristiana porta avanti le sue attività per quanto possibile con la parrocchia e le scuole che funzionano regolarmente. E qualche nota di speranza: «Di bello e di nuovo c’è che siamo riusciti a costruire a Port Sudan un nuovo edificio dove abbiamo trasferito la nostra piccola università che prima era a Khartoum, il Comboni college of scienze and technology, reimpostando l’insegnamento puntando sulle lezioni online per garantire a diversi nostri studenti che si trovano in campi profughi in Darfur, Sud Sudan, Egitto di continuare gli studi. Speriamo anche di poter tornare a Karthoum dove adesso ci sono tre preti, un comboniano e due diocesani, quando prima c’erano 13 parrocchie attive. Ma questa guerra ci ha già sorpreso tante volte».
«Il Sudan è l’emblema della tempesta perfetta: terribili atrocità contro i diritti umani, milioni di persone sradicate da questa guerra insensata… Stiamo perdendo un’intera generazione, mentre gli sforzi di pace non stanno funzionando». Sono le parole di Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Per Unhcr la situazione umanitaria è disastrosa: l’accesso ai servizi di base, come acqua pulita, assistenza sanitaria e alloggi, è gravemente limitato.