Mosaico
Un libro sulla letteratura, sul mestiere di scrivere e sull’amicizia, non solo fra autori di romanzi. È Il mondo che ha fatto (La nave di Teseo, pagine 376, euro 20) con in copertina il ritratto di Daniele Del Giudice.
«Leggendo si entra in un’officina del romanzo, in cui le varie situazioni narrative e le diverse figure scivolano come le parole, in un susseguirsi di eventi che si fondono nella narrazione. Roberto Ferrucci ha il dono del vero scrittore, la familiarità con gli oggetti e le situazioni che la vita ci pone davanti» secondo Claudio Magris che lo aveva (inutilmente…) candidato al Premio Strega.
È un libro con la parabola dello studente universitario che diventa narratore anche frequentando “dal vivo” la sua tesi di laurea, giusto? «Spero sia un libro di e per la letteratura. Avevo studiato Antonio Tabucchi e Daniele Del Giudice che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare. Poi nel libro racconto soprattutto uno degli scrittori più “letterari”, dopo quelli consolidati e storicizzati come Italo Calvino. Perché Del Giudice è davvero una punta di diamante nel panorama italiano. E c’è anche la parte legata a ciò che gli è successo, tuttavia i capitoli sulla malattia sono 4-5 su 22. Piuttosto racconto gli anni ’80-’90 che nessuno come lui aveva saputo interpretare».
Magris ha “sposato” il libro. Come si vive una simile investitura? «Non me lo sarei mai aspettato o immaginato. Lo avevo letteralmente incrociato una sola volta, per strada, a “Pordenonelegge” una ventina d’anni fa. E, purtroppo, non ho mai avuto nulla a che fare con lui. Vero è che Magris era legato a Del Giudice da una forte amicizia: confesso che proprio per questo avevo qualche timore. A febbraio, quando sono andato in casa editrice a firmare le copie, il primo nella lista dei destinatari era proprio Magris. E allora non me la sono sentita di fargli una dedica. Ma ce la siamo fatta, reciprocamente, a Trieste».
Da amico come si affronta, invece, la demenza progressiva e inesorabile che ha colpito Del Giudice? «Non essendo un parente stretto, credo come l’hanno vissuta un po’ tutti i suoi amici. Quando accade da giovani, si pensa sia qualunque altro problema, ma non quella malattia. È durissimo e posso solo provare a immaginare, per chi gli stava accanto, quanto sia stato tremendo. Nel libro non c’è una struttura cronologica, ma la narrazione funziona come la memoria che fa salti temporali, anche casuali in base ai temi».
Faccia a faccia con chi “evapora”, si innescano meccanismi di auto-difesa? «Sono andato a trovare Daniele nella residenza per anziani alla Giudecca. Ma poi era diventato più che arduo, e lo dico in maniera egoistica e vigliacca. Mi ero dato un alibi: per lui che io ci sia o meno non fa differenza. Eppure è sempre devastante. Ma la conseguenza è stata il libro, perché se faticavo a sopportare il peso delle visite mi concentravo ancora di più sul legame con Daniele. È stato lui in una telefonata, come scrivo, a regalarmi il titolo del libro che è arrivato fuori tempo massimo. Quello che è successo fra noi è tutto lì dentro, nelle quasi 400 pagine, prima e dopo la comparsa dei primi segnali della malattia».
Sulla demenza di Del Giudice c’è stata una specie di cortina fumogena? «A Venezia, tutti sapevano. Ma fuori era un’altra storia. Nelle presentazioni del libro mi capita spesso di incontrare lettori che allora non capivano il silenzio di Del Giudice. C’è qualcuno che lo faceva coincidere con il protagonista di “Atlante occidentale” quando afferma che, raggiunta una certa età, decide di non scrivere più perché aveva già detto tutto. Veramente, lo pensavano un po’ in tanti. Almeno finché Paolo Mauri di Repubblica ha scalfito la cortina del silenzio».
C’è davvero un tabù, uno stigma, una reticenza nel misurarsi con l’Alzheimer e le altre patologie neurodegenerative del cervello? «All’inizio, era abbastanza incomprensibile anche per me. Per questo genere di patologie, a differenza di tante altre che sono sviscerate nei dettagli anche più intimi, soprattutto se colpiscono un giovane scatta l’autocensura e si tende ad allontanarsi in modo un po’ egoistico. E non è una questione di privacy, che per uno scrittore che pubblica appunto è difficile. Capivo i motivi del silenzio su Daniele, ma non li condividevo anche se ovviamente li ho rispettati perché era giusto così. Poi però uno scrittore parla attraverso la sua opera, strettamente connessa a ciò che succede. Ecco: non si potrà mai parlare di Del Giudice senza il fatto che poco più che 55enne è stato bloccato definitivamente. Se è vero che ha sempre pubblicato poco, tuttavia ad un certo punto è arrivata la malattia a impedirgli di continuare a scrivere».
Infine, resta un rimpianto con lui e c’è un ricordo edificante? «Figurarsi! Rimpianti per non aver detto, non aver formulato quella domanda, non aver reagito in un certo modo. Con Daniele, non averlo frequentato quanto avrei potuto. In particolare, nel periodo in cui lavoravo per TeleCapodistria ed ero spesso lontano. Ma per me è stato bellissimo vedere che, comunque, arrivava ad un appuntamento. E mi ha regalato il titolo quando al telefono disse “È il mondo che ho fatto”. E l’editrice lo ha subito colto come il punto fermo…».