Fatti
Dopo gli attacchi subiti il 13 giugno, l’Iran ha avuto ben poche riserve da sciogliere. Gli scambi di fuoco con Israele sono sempre più incisivi, e anche i raid iraniani, saturando la difesa aerea israeliana, aumentano in quantità ed efficacia. Mentre i morti civili si contano già a centinaia, Tel Aviv parla di uno scontro a oltranza, con l’obiettivo di centrare i reattori nucleari sotterranei altrui, per cui chiede l’intervento di Washington. Chi è chiamato a sciogliere un nodo è proprio Trump, almeno per la rappresentazione degli Usa nella vicenda, pregna di implicazioni profondissime. È indubbio che conoscessero il piano d’attacco; ma un conto è sapere, un altro avallare, se non concertare. Le esternazioni contraddittorie dell’amministrazione statunitense sono significative. L’avere dichiarato sulle prime la propria estraneità ai bombardamenti si sposa con le recenti richieste a Tel Aviv di non sabotare le trattative con Teheran sul nucleare. Lo stesso dicasi per la coincidenza dell’attacco, alla vigilia del nuovo incontro negoziale Iran-Usa in Oman. Se così fosse, non sarebbe un buon segnale, poiché dichiarerebbe una grave debolezza degli Usa. L’idoneità delle superpotenze nel disciplinare il proprio campo egemonico è un dato strutturale di importanza primaria nelle relazioni internazionali. L’incapacità di dettare la linea a tutti i gregari, anziché subirne gli ammutinamenti, è un vulnus sistemico molto critico. Viepiù preoccupante se Trump fosse stato scavalcato dai propri apparati guidati dai falchi, per giunta profittando della distrazione imposta dalle attuali violenze nelle piazze statunitensi: sintomo di una superpotenza acefala, impossibilitata a interloquire credibilmente. L’alternativa che completa il dilemma (se non trilemma) è dissimulare tale fragilità alludendo alla regia Usa nell’attacco. A favore di ciò depone l’invito di Trump a Teheran ad accettare le condizioni sul nucleare, per evitare di essere polverizzati. Così pure il neocon Rubio nel collegare l’attacco alla scadenza dell’ultimatum di 60 giorni intimato ai negoziatori iraniani. Ammesso che si tratti di dissimulazione, considerando i tempi d’evacuazione del personale diplomatico da Teheran, il trasferimento dall’Ucraina a Israele di dispositivi anti-drone, l’attivazione di Starlink (i satelliti di Musk che permettono agli iraniani un accesso a internet non controllato dal governo) per guidare i segmenti d’attacco anche dall’interno dell’Iran, che richiama la recente operazione Spiderweb contro i bombardieri nucleari russi. Se così fosse, si tratterebbe di un colpo ferale alla civiltà diplomatica ultramillenaria, compromessa nel suo pilastro fiduciale da parte di chi, mentre negozia per evitare il conflitto, lo scatena: ciò seguirebbe la prassi degli ultimi decenni di avviare conflitti senza dichiarare guerra. Altro che sacerdoti feziali! Basta chiamarle “operazioni securitarie”, “azioni preventive”, e il gioco è fatto. Un dato su cui sarebbe il caso di riflettere con attenzione.
Intanto, per stigmatizzare i doppi standard altrui, Pechino, nell’esprimere sostegno all’Iran – altamente strategico per il Dragone – ha usato un comunicato che ricalca provocatoriamente quelli usati dai Paesi Nato nel 2022 per giustificare il supporto militare a Kiev aggredita dalla guerra preventiva di Mosca contro l’estensione della minaccia atlantica alle porte. Comunque la si raffiguri, la posizione Usa è alquanto problematica e finché si continueranno a confondere politica e poker, la seria diplomazia con la disinvoltura dell’uomo d’affari, la comunicazione istituzionale con la compulsione adolescenziale sui social media, il disorientamento non promette bene. Quanto a Netanyahu, è chiara l’applicazione della strategia “Mad dog” teorizzata dal generale israeliano Moshe Dayan anni or sono («Israele dev’essere come un cane rabbioso, troppo pericoloso per preoccuparsene»). Oggi si traduce nell’aprire l’ennesimo fronte, visto che non si sa in cosa dovrebbe consistere il successo nella mattanza palestinese. Ma è difficile dire quanto Israele potrà sostenere il logoramento, assieme ai Paesi che ne sostengono materialmente la tenuta, con buona pace delle esigenze dell’Ucraina. Posto che l’Iran, bloccando il petrolio sullo stretto di Hormuz, non approfondisca gli affanni dell’economia internazionale. Formalmente Tel Aviv spinge per il cambio di regime a Teheran, nel contesto di una guerra preventiva per conservarsi unica potenza nucleare nella regione. Proprio in un frangente in cui anche altri ambiscono alla deterrenza nucleare: dall’Europa alla Turchia, all’Egitto. Il pericolo è accelerare gli effetti perversi, ottenendo esattamente il contrario dell’obiettivo perseguito dagli Usa anche al di fuori del Medio Oriente, come peraltro verificatosi a seguito delle preventive wars ricavate dall’11 settembre. Infatti altri potrebbero seguire l’esempio della Corea del Nord nel dotarsi dell’atomica per non incorrere nelle vicende di Iraq, Libia e Siria. Quanto al cambio di regime (ora poco probabile), si consideri il pericoloso vuoto che si creerebbe nella regione: bastino l’esperienza dell’Isis, le catastrofi umanitarie sulla pelle di siriani e iracheni, e così via. Tanto più che, per quanto odiandosi, Teheran e gli altri Paesi della regione, negli scorsi anni, pur osteggiandosi, erano pervenuti a forme di affidamento stabilizzatore. Allargando lo sguardo, il Pakistan già si dice a sostegno dell’Iran: non solo per l’antagonismo con l’India filo-israeliana o per i nessi con Pechino, ma anche per il timore di essere risucchiata in futuro dall’allargamento del vortice. Anche se Islamabad chiama a raccolta la solidarietà islamica, visti i precedenti e gli interessi in gioco, è improbabile che le petrolmonarchie sunnite aderiranno. Eppure quest’ennesimo trauma – con possibili risvolti radioattivi – serve a ricordare una volta di più che la politica è cosa seria, non bastando ad auspicare la diplomazia mentre si armano le logiche che la pregiudicano.
Secondo fonti interne, gli attacchi israeliani contro l’Iran avrebbero provocato la morte di 224 civili da venerdì 13 a lunedì 16 giugno. «Non sarebbe un’escalation, ma la fine del conflitto» ha inoltre dichiarato Netanyahu sulla possibilità di eliminare il leader politico e religioso Ali Khamenei.