Tra l’11 ed il 19 luglio 1995 a Srebrenica, cittadina della Bosnia orientale, le truppe del generale serbo-bosniaco Ratko Mladić massacrarono, seppellendoli in fosse comuni, circa ottomila ragazzi e uomini musulmani bosniaci (il numero “ufficiale” a oggi è 8372).
Srebrenica era stata dichiarata “zona protetta” con la risoluzione 819 del 1993 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e si trovava sotto protezione – risultata inefficace – di un contingente di circa 450 caschi blu olandesi. Alla base del massacro di Srebrenica, definito come atto di genocidio da parte della Corte internazionale di giustizia e dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, vi era l’intenzione da parte dei responsabili politici e militari serbo-bosniaci di sradicare, tramite l’eliminazione o lo sfollamento di uomini, donne, bambini e anziani, le enclave bosniaco-musulmana dai territori da essi controllati. Srebrenica rappresenta uno degli ultimi e più tragici atti, sebbene non il solo, della guerra in Bosnia-Erzegovina (1992- 1995). La notizia del massacro raggiunse rapidamente i media occidentali, contribuendo a spingere la Nato a un intervento militare, denominato operazione Deliberate Force, contro le forze serbo-bosniache. Il conflitto in Bosnia-Erzegovina si sarebbe concluso con la firma degli accordi di Pace di Dayton (Ohio) il 21 novembre 1995.
Giornalisti e società civile devono tenere alta l’attenzione verso gli scenari dove avvengono violazioni del diritto umanitario
La memoria di Srebrenica è, a oggi, un fattore divisivo sia in Serbia che in Bosnia-Erzegovina. Ne è esempio la decisione presa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 maggio 2024 di istituire l’11 luglio “Giornata di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica”. Questa risoluzione è stata apertamente osteggiata in Serbia e in Republika Srpska, entità serba della Bosnia-Erzegovina. Si tratta della lunga scia divisiva del conflitto bosniaco, ancora riflessa nelle divisioni etno-nazionali della Bosnia-Erzegovina del dopo-Dayton. D’altra parte, lo stesso termine “genocidio” è oggi accompagnato, in diversi contesti, da polemiche più terminologiche che fattuali.
Trent’anni dopo, quali lezioni trarre dal massacro di Srebrenica? La prima è che la “logica” della pulizia etnica appartiene alla storia dei nazionalismi europei. Le “ombre dell’Europa” – nella celebre definizione dello storico Mark Mazower – comprendono la primordiale tendenza di ogni nazionalismo a epurare ciò che non appartiene alla nazionalità dominante. Per questo motivo, Srebrenica è a pieno titolo una storia europea di omogeneizzazione territoriale. La seconda lezione è che giornalisti e società civile devono tenere alta l’attenzione verso i teatri di guerra e conflitti civili, nel tentativo di illuminare – denunciandoli nel discorso pubblico – gli scenari dove avvengono violazioni del diritto umanitario. La terza lezione è l’importanza di educare le generazioni future alla comprensione dei limiti di ogni nazionalismo radicale ed esclusivista, che altro esito non ha che la “pulizia” territoriale. Infine, i fatti di Srebrenica – come ogni massacro di civili – non devono essere rappresentati come una “deviazione” o “aberrazione” della prassi bellica: essi non ne sono che la sublimazione.
