Mentre stiamo per andare in stampa, arriva in redazione la notizia che a Schievenin, lembo di Diocesi padovana in terra bellunese, un masso da ottanta tonnellate è piombato nottetempo nel cortile di un’abitazione. Colpa delle abbondanti precipitazioni che tra lunedì e martedì scorsi hanno colpito tutta l’area, con forti danni nel Trevigiano. Un fenomeno simile a quello che da settimane frustra turisti e operatori ampezzani e cadorini: percorrere la statale 51 dell’Alemagna tra San Vito e Cortina è oramai una lotteria, non sai mai se la trovi aperta, visto che da un momento all’altro la croda Marcora potrebbe scaricare detriti e colate di fango verso il torrente Boite. Sempre dei giorni scorsi è la notizia di un nuovo record di altitudine dello zero termico sulle Alpi: abbiamo toccato quota 5.400 metri sul livello del mare, ben 600 in più rispetto alla vetta del Monte Bianco. Il cambiamento climatico, con buona pace dei negazionisti, è oramai entrato nella nostra quotidianità e nelle nostre stesse agende. Frane e smottamenti, anche al confine tra Veneto e Trentino – in un altro lembo di Diocesi padovana, questa volta in terra vicentina (Lastebasse) – per lungo tempo hanno condizionato imprese e impiegati che ogni giorno frequentano quelle strade per lavoro. A stupire semmai è la velocità con cui il mutamento si sta sviluppando oggi: pare che i tempi millenari del pianeta si siano conformati a quelli “da frullatore” delle nostre giornate sempre di corsa. Ci siamo oramai assuefatti ad appelli come quello di Italy for climate: «Ghiaccio a rischio, sistema climatico fuori controllo. Bisogna agire subito». In realtà non sappiamo se siamo ancora in tempo per invertire la rotta, è necessario lavorare per non peggiorare troppo le cose e adattarsi alla nuova situazione. Tuttavia soffermarci sul fattore ghiaccio consente un paio di riflessioni che possono aiutarci a progredire. La prima: i ghiacciai spariranno, almeno al di sotto dei 3.500 metri di altitudine, nel giro di un ventennio. Chi ci tiene, si affretti ad andare a vederli, porti figli e nipoti a fare questa esperienza, scontata nell’ultimo secolo e negata alle generazioni non ancora nate. Niente più cime imbiancate, dunque: sapremo amare anche le montagne grigie? I ghiacciai come simbolo di molti altri fattori nella nostra vita. Ci sono attimi ed esperienze vissuti che non torneranno. Oppure momenti che non potremo mai vivere, perché non ne siamo capaci o perché non ne avremo la possibilità. In un tempo in cui tutto appare sempre disponibile – basta un touch sullo schermo del telefonino e si arreda un’abitazione – i bianchi manti gelati ci ricordano che in verità le cose non stanno sempre così e dobbiamo avere la solidità interiore di affrontarle. Chi ha attraversato un lutto lo sa bene. «In pochi decenni – scrive Enrico Camanni nell’ultimo numero de La Rivista del Cai – la vecchia immagine del ghiacciaio crudele e vendicatore è stata sostituita dall’idea di una cosa fragile che scompare senza lasciare traccia». Mai come in questa epoca storica (non a caso definita di cambiamento da papa Francesco) stiamo vedendo come l’inaudito sia possibile. Ogni giorno una rivoluzione: a livello scientifico, economico (vedi la politica americana sui dazi), geopolitico. Ma il cambiamento va governato, non può essere subìto. E per governarlo servono le competenze e il coraggio di decidere. Registriamo purtroppo che queste due caratteristiche non sono esattamente le prime a emergere da un’analisi della classe dirigente italiana e per certi aspetti anche globale. Infine, un insegnamento basilare: «I ghiacciai sono tappeti che coprono botole, pronte a spalancarsi sotto ai piedi», scrive Erri De Luca. Pertanto in ghiacciaio non si va mai da soli, ma in cordata. Ecco, uno degli errori che commettiamo più spesso – come singoli, organizzazioni o comunità – è quello di concentrarci unicamente sulla nostra rotta, senza badare alle opportunità che si manifestano di continuo attorno a noi, perdendo la possibilità di fare insieme e di fare meglio.