Questo articolo nasce, si sviluppa e si conclude contraddicendo quanto padre Antonio Spadaro aveva raccomandato aprendo a Roma il Giubileo dei Missionari Digitali e degli Influencer Cattolici. «La fede non è reazione, è visione e speranza. Non bisogna reagire a tutto. Il silenzio è diventato rivoluzionario», aveva spiegato il gesuita esperto di comunicazione.
Eppure, non reagire in questo caso sarebbe impossibile. A Roma si erano dati appuntamento oltre mille partecipanti, provenienti da 75 Paesi: preti, religiose e religiosi, ma soprattutto laici, in gran parte giovani, che ogni giorno si impegnano a diffondere il Vangelo nelle reti sociali. Una pluralità mirabile di stili, linguaggi e “nicchie” culturali da abitare. Non tutti parlano a tutti: innanzitutto per la barriera linguistica, poi per i diversi “target” di riferimento. C’è chi si rivolge ai giovanissimi, chi ai giovani, chi alle famiglie, chi vive situazioni di marginalità. C’è chi usa sé stesso come testimonianza diretta, mettendoci corpo e volto, e chi preferisce rimanere più defilato, lasciando parlare i contenuti, gli articoli o le illustrazioni. E c’è anche chi presidia il digitale con funzioni di ricerca, formazione e “coaching”, come fa WeCa, l’associazione dei webmaster – webcattolici italiani – nata addirittura nel 2003. Molto importante il network de “La Chiesa ti ascolta”, nato per dare voce, grazie al web, ai più lontani durante il cammino sinodale.
Sono stati due giorni di preghiera intensa, scambio, bellezza e incontri. Eppure, all’esterno, c’è chi ha usato quegli stessi strumenti digitali – spesso con un seguito persino superiore a chi era presente a Roma – per scagliarsi duramente contro questo raduno all’ombra di San Pietro. Certa stampa, riducendo la riflessione sulla trasmissione della fede in un mondo profondamente trasformato dal digitale, ha scelto la via più semplice: una galleria di “preti fighi” o “preti palestrati”. Così la nobile professione del giornalismo si è messa al servizio di ciò che il web già fa benissimo, e gratis: sminuzzare, demolire e fondere ragionamenti complessi e realtà profonde in titoletti fuorvianti e banalizzanti.
Non sono però del tutto infondati i timori degli influencer contro-influencer che, alla Nanni Moretti, si fanno notare di più quando mancano che quando ci sono. Il pericolo di mettere l’Io al centro e far sparire Dio esiste. Per tutti: per i “preti fighi” e per quelli sovrappeso, per i laici e per le suore. È un rischio antico, che gli algoritmi amplificano, ma che accompagna da sempre la storia della Chiesa: dalle contrapposizioni tra chi “era di Paolo” e chi “era di Apollo”, fino ai personalismi e ai clericalismi più volte denunciati da papa Francesco. Superficiali le critiche all’uso dei cellulari durante l’udienza papale, specie nei confronti di chi usa questi strumenti per allargare la diffusione della parole che ascolta.
Per questo il cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, ha invitato gli influencer – missionari digitali – a «influenzare con amore», perché l’amore non può «essere generato da un algoritmo». Gli influencer cattolici non sono chiamati solo a produrre contenuti, ma a diventare testimoni di Cristo nelle reti sociali, portando la luce del Vangelo là dove spesso regnano superficialità, polarizzazione e linguaggi d’odio.
Papa Leone XIV, durante l’incontro a San Pietro, ha definito i missionari digitali «agenti di comunione», capaci di «riparare le reti» non con il numero dei follower, ma con relazioni autentiche, amicizie profonde e condivisione gratuita. Il digitale – ha ammonito il Pontefice – può diventare un luogo di umanità e di speranza, oppure di divisione e smarrimento. La differenza la fanno uomini e donne capaci di radicarsi in Dio e portare pace nelle conversazioni online.
Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione, ha ribadito che «il digitale è reale»: non è un mondo parallelo, ma la vita quotidiana di milioni di persone. Per questo la missione digitale non è un’appendice della pastorale tradizionale, ma una presenza autentica, che nasce da cuori ardenti più che da contenuti perfetti. «Non si tratta di inseguire like – ha detto – ma di mostrare una vita che trasuda Cristo».
Le polemiche di chi rema contro finiscono così per disarmare proprio coloro che, nel marasma di contenuti e rumori dell’infosfera impazzita, prendono in mano il loro megafono per annunciare che Cristo è risorto. Con il suo invito a «riparare le reti», a unire più che dividere, papa Leone XIV ha richiamato l’urgenza dell’esserci più che dell’etichettarsi. Non aiuta, invece, il clericalismo degli anticlericali, che riducono l’annuncio del Vangelo a un compito per soli preti – “fighi” o meno – e sognano il parroco di campagna in bicicletta, senza cellulare, lontano dal mondo di oggi e quindi dalle persone di oggi. Un prete in una teca cristallizzata, incapace di provocare con il Vangelo una società apatica, edonistica e individualista, al limite della sociopatia.
Il Giubileo si è concluso con una call to action in cui tutti hanno rilanciato il messaggio di «alzare il volume della pace», #TurnUpPeace #tuttituttitutti: farsi sentire, rompere il muro del silenzio dell’indifferenza e del tacito consenso all’odio. Perché la pace inizia dalle parole, dalla comunicazione. Quella buona.