Un lampo. Un boato. Poi il silenzio irreale della morte. In pochi secondi, alle ore 8,15 del 6 agosto 1945, la città di Hiroshima fu cancellata dalla mappa e 70/80mila persone morirono sul colpo. Si stima che entro la fine del 1945 le persone morte a causa degli effetti combinati dell’esplosione, delle ustioni, delle ferite, del crollo degli edifici e soprattutto della radioattività, siano circa 150mila, molte altre anche nei decenni successivi per leucemie, tumori e malattie degenerative, conseguenze a lungo termine delle radiazioni. I sopravvissuti – chiamati hibakusha – portarono per sempre nel corpo e nell’anima i segni di quel giorno. Tra loro Hugo Makibi Enomiya-Lassalle e Tadashi Hasegawa, il primo gesuita tedesco missionario in Giappone, il secondo un ragazzo giapponese di 14 anni. Due persone la cui storia si è incrociata non solo nel momento dell’esplosione ma anche in quella della vocazione.
“L’uomo di oggi non cerca prove dell’esistenza di Dio, ma esperienze di Dio”.
Questa una delle citazioni di Hugo Makibi Enomiya-Lassalle, nato in Germania nel 1898, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1919 e inviato in Giappone nel 1929, missionario in un Paese dove i cattolici sono solo lo 0,3% della popolazione. A Hiroshima, dove risiedeva dal 1940, sognava una cattedrale – quella dell’Assunzione di Maria – che potesse essere simbolo di pace e dialogo tra il cristianesimo e la spiritualità giapponese. Alle ore 8,15 del 6 agosto si trovava a circa 1,4 km dall’epicentro. Sopravvisse miracolosamente, ma con gravi ustioni. Il suo racconto è tra i più toccanti: uomini e donne ridotti a ombre sulle pareti, corpi in fiamme, silenzio e cenere ovunque. Quello che poteva diventare un trauma paralizzante, per padre Enomiya-Lassalle si trasformò in una vocazione più profonda: farsi ponte tra Oriente e Occidente, tra fede cristiana e meditazione zen, tra memoria e speranza. La sua fu una testimonianza di riconciliazione, mai di odio. Viaggiò per il mondo raccontando Hiroshima, non per accusare, ma per invocare pace.
“Questa chiesa è stata eretta in memoria delle vittime della prima bomba atomica… a simboleggiare la vera e unica via che conduce alla pace con Dio e con gli uomini: la via della verità, non dell’inganno; della giustizia, non della violenza; dell’amore, non dell’odio”.
Questo è scritto davanti alla Cattedrale Memoriale della Pace Mondiale costruita proprio sulle rovine della città, seguendo un progetto che unisce architettura giapponese e occidentale, come simbolo di armonia tra popoli. Fu tra le prime chiese costruite dopo la guerra, e divenne subito un simbolo di riconciliazione. Nel 1981 vi si recò anche Giovanni Paolo II, rafforzando il legame tra la Chiesa universale e il messaggio di Hiroshima. Enomiya-Lassalle morì nel 1990, lasciando in eredità una spiritualità profonda, radicata nel silenzio e nella compassione, e un esempio pionieristico di dialogo interreligioso che anticipò il Concilio Vaticano II.
“Ricordare Hiroshima significa aborrire la guerra nucleare. Ricordare Hiroshima significa impegnarsi per la pace. … Non ripetiamo il passato, un passato di violenza e distruzione. Intraprendiamo il ripido e difficile cammino della pace”.
La citazione riportata sotto la sua foto che lo ricorda nel Museo memoriale della pace di Hiroshima.
“È responsabilità di noi sopravvissuti trasmettere correttamente quella tristezza, quel dolore, quella sofferenza”.
Sono queste le parole di Tadashi Hasegawa riportate nella prefazione della sua autobiografia, nella quale racconta di quando la mattina d’estate del 1945, aveva solo 14 anni e vide il cielo squarciarsi. Era appena tornato da una nuotata con gli amici. Fu investito dall’onda d’urto, riportò gravi ustioni, e lottò con la famiglia per sopravvivere tra fame, dolore e radiazioni. La loro casa fu distrutta, le strade invase da corpi, le fonti d’acqua contaminate. Il trauma dell’atomica per lui, come per gli altri, non si limitò al corpo ma rappresentò una ferita spirituale. In quella ricerca di senso, Tadashi incontrò i gesuiti, presenti a Hiroshima sin dagli anni ’20. In particolare, fu un incontro con un altro gesuita sopravvissuto – padre Pedro Arrupe, futuro Superiore generale della Compagnia di Gesù – a segnare il suo percorso. Attraverso di lui e altri missionari come Enomiya-Lassalle, Hasegawa trovò nel cristianesimo una via di guarigione. Scelse di farsi sacerdote.
“Possa l’esperienza di un sopravvissuto alla bomba atomica dare anche un piccolo contributo alla realizzazione della vera pace in questo mondo. Possa la ‘piccola pace’ nei cuori delle persone sbocciare in ‘pace mondiale’”.
Le sue parole testimoniano come negli anni successivi, divenne una figura discreta ma determinata del movimento dei hibakusha testimoni della bomba. Non cercò mai vendetta, non accusò nessuno. Disse che raccontare la propria esperienza era sufficiente. Voleva che il mondo capisse. E che Hiroshima non si ripetesse mai più.
Nel 2010 pubblicò la sua biografia in giapponese “The Morning of August 6, I Was 14 Years Old” (La mattina del 6 agosto, avevo 14 anni). Un testo toccante, crudo, necessario. Un anno dopo, morì di cancro, probabilmente causato dalle radiazioni. Ma non prima di ricevere una promessa: la nipote Agnes e suo marito Richard Thaler avrebbero tradotto il libro e fondato la August 6 Foundation, con lo scopo di far conoscere la sua storia nel mondo. Oggi il libro è disponibile gratuitamente sul sito www.august6foundation.org.
“’Dove c’è odio, ch’io porti amore. Dove c’è offesa, ch’io porti il perdono’. Possa la luce di questa preghiera, che incarna lo spirito di san Francesco d’Assisi, avvolgere questo mondo azzurro anche solo un giorno prima”.
Padre Enomiya-Lassalle e padre Hasegawa provenivano da mondi opposti. Uno era un sacerdote europeo, colto e mistico; l’altro un adolescente giapponese, segnato dal dolore e dallo sradicamento. Eppure, entrambi trovarono nella fede un modo per elaborare la devastazione della bomba atomica. Il primo cercò nel dialogo tra culture e religioni una risposta al male. Il secondo trovò nella vita sacerdotale una ragione per servire e ricordare. Entrambi, alla fine, si fecero strumenti di pace. Le loro vite testimoniano che anche nelle ceneri dell’orrore può nascere qualcosa di nuovo. Non un semplice ritorno alla normalità, ma un cammino di trasformazione.
Oggi, in un mondo attraversato da nuove minacce nucleari, le storie di Enomiya-Lassalle e di Tadashi Hasegawa ci ricordano cosa è in gioco. Le loro vite sono un monito silenzioso ma potente. Non bastano le statistiche delle vittime per comprendere l’orrore della bomba: servono i volti, le voci, le ferite, le speranze di chi c’era. Nel raccontare la propria sopravvivenza, entrambi hanno scelto di parlare non del proprio dolore, ma della responsabilità che ne nasce: costruire la pace. In questo, sono profeti del nostro tempo.