Mosaico
Se non l’ultima opera, sicuramente l’ultima grande di Shakespeare: è vero che fu rappresentata nel 1611, e che il suo creatore morì cinque anni più tardi, ma davvero vi si respira un’atmosfera stupenda di richiesta di pacificazione, con sé stesso, con Dio, di perdono e di addio alla “finzione”, anche se Shakespeare continuò a scrive altre opere. Nella “Tempesta” vi sono scene che sembrano un testamento spirituale e letterario, come se quelle parole che gli avevano dato la fama in realtà si rivelassero come labili segni di un passaggio verso altro.
Perché la sua storia, quella di Prospero, duca di Milano, che viene spodestato dal fratello che consegna il potere ad Alonso, re di Napoli, e abbandonato su un malandato vascello alla deriva, che poi riesce a rovesciare il destino e riprendersi il potere, è quella dell’inutilità del rancore e dell’odio.
Anzi, quando la possibilità di vendetta gli si presenta realmente davanti, perché con le sue arti magiche ha fatto naufragare la nave su cui viaggiavano il fratello traditore e il re di Napoli, egli perdona e permette anzi che la vita continui nell’amore: infatti, ironia, una benefica ironia, del destino, uno dei naufraghi, il giovane figlio di re Alonso, si innamora della figlia di Prospero e alla fine le loro nozze si prospettano a riparazione del male compiuto dagli adulti assetati di potere.
Una vicenda ispirata sia alla cronaca, il naufragio di una nave al largo delle Bermude e la salvezza del numeroso equipaggio che riuscì con mezzi di fortuna a raggiungere un porto sicuro, sia dalla storia: nel 1494, Carlo VIII, re di Francia, venne chiamato da Lodovico detto il Moro, che aveva usurpato il potere a Milano, a scendere in Italia e a iniziare, così, un lungo periodo di intrighi e lotte che attraversarono tutta la penisola.
Ma questa cronaca diviene altro in quello che è il testamento poetico del suo grande autore. Quando Prospero afferma che “perdonare è più nobile agire che vendicarsi” non compie solo un atto magnanimo: decide anche di abbandonare ciò che gli aveva permesso di rovesciare le carte in gioco, rinunciando alla magia e a quella cultura che lo aveva allontanato dalla saggia amministrazione della cosa pubblica: “spezzerò questa mia verga magica, e la seppellirò ben sottoterra, e in mare scaglierò tutti i miei libri”.
Alcuni, come abbiamo visto, hanno letto in queste parole anche l’addio di Shakespeare alla “finzione” letteraria e teatrale, che però sarebbe continuata almeno con altre tre opere, anche se non allo stesso livello.
Qui emergono ammonimenti in grado di parlare al nostro tragico oggi: la capacità di mettere limiti al proprio desiderio di potere, anche mediatico, oltre che economico e politico, capendo quando quel potere ci sta trascinando verso una identificazione divina, che in realtà è demonica; la consapevolezza dei propri limiti ed errori, che porta al perdono e alla fine del dolore degli innocenti e la possibilità che dall’antico odio possa nascere il fiore dell’amore.
Un’opera “terminale” nel senso più positivo del termine, in cui un uomo illustre decide di mettere fine ai combattimenti legati alla lotta per il successo, e quindi per una forma di potere, a quella che in fondo è una sorta di magia illusoria, la creazione letteraria, la finzione di una seconda realtà che forse Shakespeare stava leggendo come tentativo inconscio di auto-divinizzazione.
E soprattutto un invito geniale e profondo alla pace, all’abbandono del sentimento di vendetta, perché l’umanità possa tornare all’amore e al rispetto per le creature e il creato, come aveva cantato tre secoli prima il Poverello. Contro le finzioni di una falsa natura. Che ci viene restituita virtuale, e contrabbandata come migliore.
Questo è farsi Dio, direbbe lo Shakespeare della Tempesta.