La bruttissima storia delle immagini di donne messe online a loro insaputa a servizio della trivialità maschile insegna tante cose, anche su come funzionano internet e la rete. Ancora una volta nulla di nuovo, come notano con fine erudizione Riccardo Mensuali su Avvenire e Damiano Michieletto sul Foglio di sabato scorso: la letteratura e la storia sono pieni di fatti simili. Qui però la mediazione tecnologica assume una rilevanza particolare di cui dobbiamo essere avvertiti.
C’è sempre stata una fotografia della propria moglie o ragazza nel portafoglio di tanti uomini. Nella maggior parte dei casi, come succede ancora oggi per le fotografie che scattiamo e magari postiamo sui social, l’immagine costituiva un modo per mantenere viva la memoria e condividerla con amici, colleghi e conoscenti. Come sempre, qualche immagine generava anche commenti piccanti e qualche fantasia erotica: la tentazione egoista e oggettivante dell’erotismo umano non è fatto esclusivo di questo tempo. Internet e i social hanno però cambiato profondamente le condizioni in cui tutto ciò accade.
Anzitutto visioni e commenti non sono più una pratica condivisa ma un fatto privato e quindi senza quei freni che la socialità naturalmente produce. Esprimere un commento salace sull’immagine di una donna davanti al marito o fidanzato impone una misura: non si può esagerare né scendere troppo nel volgare. Il proprietario della foto potrebbe offendersi, non gradire tutti i commenti, anche reagire in modo negativo. La rete ha cancellato questa presenza con funzioni di controllo. Ognuno guarda e commenta privatamente, talvolta anche quasi in modo anonimo, senza doversi confrontare con gli affetti, i pensieri e i giudizi altrui. Ancora una volta, internet mostra la capacità di deresponsabilizzare i suoi utenti, che, soli davanti allo schermo, si sentono al sicuro e tirano fuori il peggio di loro. Anche di illuderli: per quanto sembri il contrario, non esiste anonimato su internet, se non in forma estremamente superficiale e quando i problemi emergono ci vuole davvero poco a risalire ai colpevoli.
Al contempo, paradossalmente, internet rende clamorosamente pubblico ciò che accade in privato. Il commento volgare sulla fotografia della fidanzata finiva sostanzialmente nel momento in cui accadeva; al massimo si prolungava di qualche minuto se qualcuno tentava di rubare la fotografia al malcapitato che, naturalmente, reagiva malamente. Sulla rete questo non accade: quando un contenuto è in rete, sui social gode di vita totalmente autonoma e quasi del tutto incontrollabile. Quello che era lo sguardo di un amico, collega o commilitone, diventa migliaia, decidine, centinaia di migliaia di sguardi e commenti. Una valanga incontrollabile di volgarità. La rete e i social hanno la capacità di amplificare tutto, in un modo che neanche immaginiamo: tutto il bene che c’è e tutto il male che, purtroppo, accade. Lo fanno proprio perché reti, tecnologie per la socialità.
Ecco perché il tema della privacy è diventato particolarmente importante nella nostra era digitale e nessuna delle opzioni che ci sono offerte per tutelare il più possibile la nostra sfera privata deve essere evitata solo perché, magari, fastidiosa o necessaria di qualche attenzione maggiore. L’esempio forse più clamoroso è il modo in cui vengono gestite le domande sui cookie che sempre appaiono (in Europa) all’apertura di un sito web. La frequente accettazione incontrollata di tutte le opzioni evidenzia l’incredibile superficialità e ingenuità con cui si abita la rete.
No, non è internet il male del mondo, e non possiamo scaricare sui nostri dispositivi tecnologici, ciò che invece è responsabilità tutta e sempre umana. La novità vera è che internet deresponsabilizza e amplifica a dismisura. Ci rende, cioè, più fragili e più deboli nell’affrontare e gestire i nostri limiti, le nostre fragilità, anche i nostri vizi.
La rete ci impone di diventare più consapevoli e responsabili. Persone migliori.