Idee
Non passa giorno senza che da Israele e dalla Striscia di Gaza arrivino notizie sempre più tremende. Un conflitto che sembra non conoscere sbocco, segnato dallo scontro tra il Governo di Benjamin Netanyahu e Hamas, e che continua a lasciare dietro di sé macerie materiali e umane. A pagarne il prezzo più alto è la popolazione: da un lato gli israeliani che vivono nell’insicurezza degli attentati e con la ferita ancora aperta degli ostaggi nelle mani di Hamas; dall’altro gli abitanti di Gaza, sottoposti a un martirio quotidiano fatto di bombardamenti, distruzioni e minacce di carestia.
Francesco Saverio Leopardi, docente di Storia moderna del Medio Oriente all’Università di Padova, sottolinea la necessità di distinguere piani diversi: «In questo momento quella che Israele sta portando avanti non è una guerra in senso tradizionale, quanto un’operazione militare condotta senza un obiettivo politico chiaro – spiega alla Difesa – Certo, gruppi palestinesi continuano a condurre azioni armate in particolare da Gaza, e la sicurezza israeliana resta una preoccupazione concreta. Ma la giustificazione della liberazione degli ostaggi, che all’inizio poteva apparire una priorità, oggi sembra soprattutto una copertura politica, che non convince nemmeno gran parte dell’opinione pubblica israeliana. Quel che resta è un quadro in cui carestia indotta, bombardamenti massicci e confinamento della popolazione civile assumono tratti che esperti e organizzazioni internazionali definiscono compatibili con la categoria di genocidio».
Per quanto riguarda più in generale la situazione in Medio Oriente, per Leopardi lo scontro diretto con l’Iran di quest’estate ha aperto una fase interlocutoria, nella quale Israele appare intenzionato soprattutto a consolidare la supremazia militare e politica nella regione: «Da questo punto di vista il 7 ottobre è servito a portare avanti una linea probabilmente già in preparazione da tempo: contenere Hezbollah, colpire il regime di Assad in Siria e, se necessario, l’Iran. Una visione che, più che alla stabilizzazione, punta a impedire che gli avversari diventino una minaccia, in sintonia con l’approccio oggi prevalente a Washington».
Molto discusso è il ruolo dell’Iran e del cosiddetto “asse della resistenza” nella preparazione degli attacchi del 2023 al territorio israeliano, sul quale però lo storico è dubbioso: «Il 7 ottobre non è stato un attacco eterodiretto da Teheran. Hamas ha agito in autonomia, e le risposte piuttosto caute di Iran e Hezbollah mostrano i limiti concreti di questo fronte».
Quanto alla miccia che ha fatto deflagrare il conflitto, Leopardi si mantiene prudente: «Siamo ancora nella nebbia della guerra. Possiamo però dire che il 7 ottobre rappresenta la svolta di una strategia. Negli anni Dieci di questo secolo Hamas aveva tentato di presentarsi come attore politico più moderato: aveva elaborato una nuova carta costitutiva, in cui nel breve periodo si accettava implicitamente la prospettiva di due Stati; aveva inoltre preso le distanze dalla Siria e avviato un riavvicinamento a Paesi come l’Arabia Saudita, con l’idea di ottenere concessioni sull’assedio a cui Gaza è sottoposta da anni. Quella linea si è però rivelata un fallimento, e allora è emersa l’impostazione di Yahya Sinwar (dal febbraio 2017 è leader di Hamas, ndr) secondo cui l’unico modo per costringere Israele a concessioni era la lotta armata».
Attacchi alla popolazione israeliana non erano certamente inediti ma, argomenta Leopardi, l’impatto militare e politico del 7 ottobre è probabilmente andato oltre le aspettative dei suoi stessi ideatori. Per questo Israele, anche in quella parte della società che non si riconosce nel Governo di Netanyahu, rivendica il diritto a punire i colpevoli e in generale ad agire per neutralizzare le possibili minacce. «Questo però non giustifica la fame e la morte di migliaia di bambini. La sicurezza non può basarsi su punizioni collettive». Ed è in questa cornice che nasce la Global Sumud Flotilla: «L’iniziativa dimostra una presa di coscienza crescente da parte dell’opinione pubblica mondiale, con diverse imbarcazioni e persone provenienti da più Paesi, e testimonia come la questione di Gaza abbia assunto un peso sempre più forte sulla scena internazionale» osserva.
Sulle prospettive per la pace, Leopardi è scettico. «La soluzione dei due Stati era già impraticabile da tempo, ben prima del 7 ottobre. L’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania a partire dagli anni Novanta rende oggi impossibile immaginare uno Stato palestinese libero e sovrano. Già Rabin, leader laburista, diceva di non credere che avrebbe mai visto nascere uno Stato palestinese: figuriamoci oggi con i partiti di destra messianici che puntano alla “Grande Israele”».
Anche sul fronte opposto del resto la situazione non è migliore: «Manca una leadership politica credibile. L’Autorità Nazionale Palestinese è screditata e percepita come corrotta e autoritaria, mentre Hamas ha capacità militari ma manca di un progetto politico. Un tempo l’Olp dichiarava di combattere per istituire uno Stato palestinese democratico: oggi quell’orizzonte non c’è più».
Una situazione di impasse in cui la comunità internazionale dovrebbe, secondo lo studioso, recuperare un ruolo decisivo: «Oggi Israele non prende in considerazione la diplomazia e rifiuta il cessate il fuoco. L’unica via sarebbe imporre un blocco delle forniture di armi e sanzioni che lo costringano al rispetto del diritto internazionale. È un terreno difficile, perché molti Paesi occidentali restano alleati stretti di Israele, ma è l’unico strumento realistico».
Dal giornalista all’operatore di Emergency, la scelta di chi salpa per portare aiuti essenziali ai civili di Gaza
La Global Sumud Flotilla è salpata. Una manciata di imbarcazioni partite da porti diversi si avvia a darsi appuntamento al centro del Mediterraneo, con l’obiettivo di rompere l’assedio che isola Gaza portando aiuti umanitari e generi di prima necessità. Un’operazione complessa, difficile e rischiosa, e al tempo stesso carica di significato politico e simbolico, che non nasce dal nulla (è del 31 maggio 2010 l’assalto delle forze speciali israeliane alla nave Mavi Marmara, che causò nove morti e decine di feriti) ma che questa volta sembra capace di suscitare una mobilitazione ancora più ampia e internazionale.
Da Catania attende di imbarcarsi Ivan “Grozny” Compasso, giornalista basato a Padova che da trent’anni racconta guerre e conflitti: «È impressionante vedere questa mobilitazione da tutto il mondo: ho conosciuto malesi, svedesi, svizzeri, spagnoli… Non siamo professionisti, siamo solo persone che hanno a cuore i diritti umani, che vengono qui a proprie spese rinunciando a lavoro e vacanze. E mi fa ridere quando ci dicono che siamo coraggiosi a imbarcarci: per me il coraggio ci vuole a non far nulla di fronte a quello che sta accadendo a Gaza. Agire è l’unica scelta possibile».
Per lui l’obiettivo resta semplice e radicale: «Portare aiuti a chi non ha più nulla. Non importa chi tra di noi riuscirà a salire a bordo; ognuno porterà idealmente con sé amici, conoscenti, ma anche tanti sconosciuti che condividono questa battaglia. Rappresentiamo anche loro e ne sentiamo la responsabilità».
Compasso ha attraversato e raccontato molte zone di crisi, dai Balcani al Medio Oriente: «Mi interessano le persone, non i governi. Che mondo è quello in cui si affama e si deporta? Due Stati o uno solo, per me non è questo il punto: se i diritti fossero uguali ovunque e per tutti i conflitti non esisterebbero. Bisogna vivere insieme». E a chi gli chiede perché ha deciso di partire, risponde: «Ognuno porta con sé un simbolo; io porto Kobane, la città del Kurdistan che ha resistito all’Isis e dove si è provato a costruire una società democratica ed egualitaria. La dimostrazione che un’altra politica è possibile, ed è proprio questo che spesso fa paura».
A poche centinaia di miglia marine, a bordo della Family, la nave che guida la flotta e che ha a bordo Greta Thunberg e Ada Colau, ex sindaca di Barcellona, c’è Antonio La Piccirella, 35 anni di Bari, uno dei portavoce italiani dell’iniziativa: «Siamo partiti da Barcellona e ora siamo a meno di un giorno di navigazione da Tunisi. La prima notte è stata dura, con bufera e onde di due metri. Ma il viaggio è iniziato, ed è quello che conta».
Da oltre quindici anni La Piccirella fa parte di movimenti per la giustizia sociale e climatica, e vede in questa esperienza la naturale evoluzione del suo impegno. «Dal 7 ottobre 2023 la questione palestinese è diventata insostenibile. Ho partecipato a manifestazioni e presidi, ma come tante persone mi sentivo frustrato: vivere mentre si consuma un genocidio e restare impotenti è intollerabile. Conoscevo la Flotilla, e quando ho saputo che ripartiva li ho contattati subito».
Non è la sua prima volta: ha preso parte a missioni precedenti, dalla Madeleine alla Handala, alcune finite con blocchi e attacchi. «Dopo anni di richieste ai governi senza alcun risultato, abbiamo deciso di agire in prima persona. È un’azione non violenta, legittima e legale, protetta dal diritto internazionale. Portiamo cibo, latte in polvere, medicinali. Nulla giustifica affamare a morte una popolazione civile. Se addirittura di fronte a un genocidio non c’è una reazione umana, significa che la nostra società è spacciata. Vorremmo solo che il mondo iniziasse a girare intorno all’uomo e all’umanità, e non al profitto di pochi».
Sul 7 ottobre e le azioni di Hamas, La Piccirella preferisce non entrare nel merito: «Per noi questa è una questione che esula dal nostro compito – risponde infastidito – Parlare di terrorismo, in questo contesto, significa accettare un linguaggio che è servito a smantellare la Palestina a livello politico e istituzionale. Chiedere del 7 ottobre come se fosse il nodo principale della questione vuol dire, di fatto, tentare di spostare l’attenzione e legittimare lo sterminio in corso, facendo passare l’idea che in qualche modo le popolazioni civili si meritino l’assedio».
Dalla nave Life Support di Emergency arriva, invece, la testimonianza di Jonathan Nanì La Terra, impegnato nei soccorsi in mare. La sua attenzione è rivolta anche alla forza di questo movimento partito dal basso: «Speriamo che la Global Sumud Flotilla riesca a portare gli aiuti umanitari e a creare un corridoio stabile. Ci auguriamo che la politica prenda finalmente una posizione chiara, soprattutto di fronte a un’iniziativa che nasce dalla società civile ed è diventata globale e trasversale. I cittadini hanno già preso posizione, anche davanti all’inattività dei governi». Nanì sottolinea anche il valore contagioso di questa esperienza: «Sono già molte le organizzazioni che sostengono la Flotilla. Ma il fatto che delle persone comuni abbiano creato un movimento così forte e sentito in tutto il mondo può incoraggiare altre realtà a prendere posizione e scendere in campo».
Tre voci diverse, tre percorsi differenti con la stessa convinzione: «Tentare è un dovere – conclude Compasso – Non vogliamo fare male a nessuno, solo mantenere alta l’attenzione su Gaza e Cisgiordania. Perché i diritti devono valere per tutti: solo così si può immaginare un futuro diverso».
Martedì 9 settembre, mentre andiamo in stampa, Israele ha annunciato ufficialmente di accettare la proposta di accordo avanzata dal presidente Usa Donald Trump: «Israele desidera porre fine alla guerra a Gaza sulla base della proposta del presidente Trump e in conformità ai principi stabiliti dal gabinetto di sicurezza», ha dichiarato il ministro degli Esteri Gideon Sàar. La proposta americana prevederebbe l’accordo sul rilascio di tutti gli ostaggi e la fine della guerra a Gaza avendo come clausola, riferisce Channel 12, emittente israeliana, «il ritiro israeliano completo, senza eccezioni, compreso dal perimetro della Striscia» che «avverrà solo in base alla capacità del nuovo Governo di Gaza di garantire la sicurezza».
Da Israele trapela “soddisfazione” proprio su questo punto, poiché non impone un ritiro incondizionato dalla Striscia.

Nella notte tra lunedì 8 e martedì 9 settembre, la Family Boat, una delle imbarcazioni principali e che trasportava membri del Comitato direttivo del Global Sumud Flotilla, è stata colpita da un drone al largo del porto tunisino di Sidi Bou Said. «L’imbarcazione navigava sotto bandiera portoghese ed era in fase di preparazione per la partenza verso Gaza – si legge nel comunicato del movimento – L’attacco ha causato danni da incendio all’albero maestro principale e allo stivaggio sottocoperta. È in corso un’indagine e le riparazioni verranno avviate non appena sarà considerato sicuro farlo». Il Governo tunisino ha smentito l’ipotesi di un attacco, sostenendo che le fiamme si siano propagate da un mozzicone di sigaretta. Nei video di sorveglianza, però, si vede chiaramente una scia luminosa precipitare sull’imbarcazione.