Un bambino compie dieci anni, ma la sua festa di compleanno rischia di andare deserta. Non è molto «popolare», come scrive la mamma Giulia, perché affetto da un disturbo dello spettro autistico e i compagni di scuola, per una serie di incastri, non possono esserci. È qui che la mamma ricorre agli strumenti del 21° secolo: un reel su Facebook e Instagram e alla festa al parco Azzurri d’Italia, nel quartiere dell’Arcella, si presentano in più di cento: famiglie con bambini con disabilità o meno, l’amministrazione comunale, due clown dell’associazione “Gioca con il cuore” e perfino il Ferrari club di Abano Terme, con sei potenti bolidi al seguito.
Si tratta di una notizia che molti di voi avranno già letto o ascoltato più volte, vista l’eco nazionale che ha avuto. Ma è talmente bella che non si può lasciarla andare troppo facilmente. Perché in quella occasione è emersa la grande umanità che permea la nostra società, nelle grandi città come nei piccoli paesi. È una caratteristica conclamata seppure spesso ignorata nelle narrazioni che noi stessi facciamo della realtà o dei gruppi che frequentiamo: il chiacchiericcio e le beghe di solito soverchiano nei racconti il bene che sta alla base di molte nostre esperienze quotidiane.
In quel parco molti si sono sentiti compresi (penso al papà che ha confidato l’amarezza di non aver mai festeggiato il compleanno del proprio figlio in sedia a rotelle), altri hanno toccato con mano la missione quotidiana delle famiglie raggiunte da una diagnosi ostica: «Ma noi non siamo solo la nostra diagnosi», ha detto giustamente mamma Giulia al Mattino.
Tutto è nato quindi dalla capacità di scoprirsi e di condividere, senza paura della diversità che abita ogni famiglia o dei giudizi altrui, oggi sempre più affrettati e pervasivi (sempre grazie ai social). È un cambio di atteggiamento fondamentale rispetto a un passato recente in cui si tendeva a nascondere la disabilità, quasi a vergognarsene, retaggio forse di un sottofondo culturale impregnato di superstizione e di ignoranza.
E tuttavia per questa famiglia, dopo il momento della gioia – il dono già bello che si potesse fare al figlio per il compleanno – torna la routine. Parole come resilienza sono state consumate dall’uso (e dall’abuso), ma rendono bene l’idea di cosa sia necessario per affrontare il lunedì mattina dopo la domenica di festa. E qui si aprono due riflessioni per guardare avanti.
La prima riguarda tutto l’universo di cittadini e cittadine che si mettono in gioco ogni giorno, giorno dopo giorno, per il bene comune. È vero, il volontariato risente del mutare dei tempi, ha sempre più i capelli bianchi e nei giovani vive più di esperienze estemporanee che di appartenenza: rimane il fatto che migliaia di persone si mettono a disposizione per far stare meglio gli altri, tra cui tante persone che sperimentano su di sé la fragilità. Anche tutte costoro meriterebbero una copertura mediatica nazionale perché sono la costanza e la perseveranza che generano l’humus su cui poi fiorisce anche l’occasione speciale (come il compleanno dell’Arcella).
In secondo luogo, il sollievo che proviamo di fronte a questa prova di vicinanza e di umanità non deve rendere più rarefatta l’attenzione di tutti noi sui diritti di ogni persona. In questi giorni di inizio anno scolastico, balza ancora una volta agli occhi – anche di osservatori profani come noi – il ritardo con cui vengono nominati gli insegnanti e in particolare quelli di sostegno. E quando le nomine arrivano, non di rado rimangono dubbi sulle modalità di selezione e sulle competenze reali di questi insegnanti. Siamo consapevoli: non si può generalizzare, ma in molti casi l’impressione è che personale in graduatoria venga spedito a tappare i buchi nel sostegno, trovandosi poi in situazioni tutt’altro che complesse da gestire, specialmente di fronte a ragazzi delle superiori o con sindromi che richiedono interventi specifici.
Anche da come si affronta tutto questo si misura il grado di civiltà di un Paese.