Il titolo che avete appena letto è, se volete, l’ennesimo meme (post sui social network fatto di parole e/o immagini per ironizzare su una situazione) che riprende la scena surreale andata in onda su Rete 4, nel programma È sempre Cartabianca di Bianca Berlinguer: dopo che Enzo Iacchetti ha evocato la morte e la fame di migliaia di bambini a Gaza, il rappresentante della federazione Amici d’Israele, Eyal Mizrahi, lo ha fatto andare su tutte le furie intimandogli: «Definisci bambino».
In questo pensiero libero tuttavia spostiamo il focus.
Non è possibile far calare così in fretta il silenzio sul suicidio di Paolo Mendico, 14 anni, di Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina. Un episodio come questo solleva pesantissimi interrogativi sullo stato d’animo dei nostri giovanissimi, sulle sfide che affrontano ogni giorno, vivendo un presente assoluto, privo della prospettiva che acquisiranno crescendo, imparando la vita per lo più in un mondo virtuale, non normato e poco conosciuto dagli adulti, in cui la tecnologia permette molto, ma può anche essere devastante (per esempio nel caso di un video compromettente che nell’arco di pochi minuti può diventare virale).
Gli esperti sostengono che, da un lato, l’adolescente degli anni 2020, affronta sfide simili o identiche a quello degli anni Novanta o Ottanta del Novecento, eppure il contesto in cui agisce e cresce è disseminato di nuove trappole. Fanno molto riflettere le parole che Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e autore di numerosi libri sulla genitorialità, ha pronunciato in un’intervista all’agenzia Sir: «Paolo viveva come in trincea, nel mondo reale e in quello virtuale, con una fortissima percezione di impotenza. Non riusciva a tutelarsi né a mantenersi integro. Il gesto estremo compiuto il giorno prima del ritorno in classe ci dice che anche la scuola era per lui un campo di battaglia, non quel luogo sicuro che dovrebbe essere».
Trincea, impotenza, campo di battaglia: chi mai vorrebbe vivere in una situazione tale? E chi mai sopporterebbe che il proprio figlio – o un ragazzo della squadra che alleniamo o del gruppo parrocchiale che animiamo – dovesse affrontare tutto questo ogni giorno?
Il gesto estremo nasce dalla totale disperazione che qualcosa possa cambiare, che la condizione di vita possa migliorare. Ma Pellai aggiunge qualcosa in più: «Quando un adolescente si sente invisibile, non ascoltato, impotente, la vita perde senso.
Se non c’è una via d’uscita, si chiede: “Che cosa sto a fare qui?”».
Il nostro dubbio è che una dinamica interiore come questa possa appartenere anche a tanti giovani maggiorenni o adulti, specie in un contesto sociale in cui molti riferimenti, un tempo granitici e scontati, rischiano di impallidire di fronte alle sfide dell’oggi.
In tutti questi casi, ogni adulto ha dei compiti precisi: esserci, ascoltare, agire, e a suggerirlo è lo stesso medico e psicoterapeuta. La missione educativa appartiene dunque a tutti e ha, come primo obiettivo, passare dalla massa alla persona. La classe esiste solo se l’insegnante ha ben presente, uno a uno, gli studenti che la compongono. La squadra vive dinamiche che lasciano traccia in ognuno dei suoi componenti. Il gruppo, infine, attraversa fasi in cui ognuno ha un ruolo, e non è detto che si senta sempre a suo agio. È necessario esserci, ascoltare, manifestare la propria vicinanza con calore. Anche se coltivare relazioni forti, costanti e sane è una delle partite più complesse di un’attualità in cui le agende scoppiano e tendiamo a vivere molti impegni come un dovere da cui smarcarci il prima possibile, anziché come un’occasione in cui “stare”, incidere, ascoltare – o farsi ascoltare.
Oggi forse, i nostri adolescenti hanno bisogno di adulti che facciano il tifo per loro, più che di censori pronti a scattare al primo sgarro.
“Definisci: ascolto, vicinanza, amore”.