«Il vostro è un Dio della polvere. Lo avete disintegrato. Per questo fate pulire i vostri palazzi in modo ossessivo, da donne addestrate ad affogare nell’ossessione della pulizia la loro vocazione. Dio si dissolve sotto i colpi delle vostre bugie, polvere, omissioni, tergiversazioni, confusioni. Non c’è salvezza. Diventa polvere ma Lui risorge e voi restate polvere da scuotere fuori della finestra».
Basterebbe questa citazione, che si incontra verso la fine del Dio della polvere (edizioni Guanda), per misurare la potenza dell’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano. Fin dal suo esordio con La vita accanto, la filosofa e teologa vicentina, per molti anni insegnante, si pone dalla parte degli ultimi, raccontando il mondo dai margini. Le parole riportate sopra sono lo sfogo della protagonista di questo romanzo: una fisioterapista che dialoga in modo serrato con un vescovo, nel tentativo di convincerlo a prendere posizione davanti al dolore di una donna che, da bambina, è stata abusata da un prete.
La trama del romanzo è tutta qui. Si sviluppa all’interno dell’episcopio: una donna, abituata a lavorare sul corpo delle persone, cerca di far toccare le ferite dell’abuso al vescovo, che sembra distante e staccato da ciò che lei racconta. Il suo lavoro la porta a leggere il linguaggio del corpo, quei tanti segnali non verbali che parlano della persona. Questa attenzione al particolare, del resto, è una delle cifre distintive della scrittrice vicentina. Se a parole possiamo nascondere la verità, il corpo non mente, la carne non può celare il dolore che si porta dentro; sono i dettagli a raccontare la vita di una persona.
Con forza, determinazione e spesso anche irriverenza, questa fisioterapista, appassionata di umanità, ingaggia una battaglia verbale con il prelato, che fatica a toccare le ferite di Cristo – se vogliamo usare una metafora evangelica. Se Tommaso non crede senza prima toccare le piaghe del Risorto, il vescovo invece continua a credere in Dio pur rifiutandosi di avvicinarsi alle ferite di Cristo che, dopo tanti anni, continuano a sanguinare nel corpo di una donna abusata.
La potenza di questo libro si misura anche nel desiderio di terminarlo il prima possibile, quasi per difendersi dalle ferite che lascia dentro: quelle di un mondo dimenticato e di un’indifferenza che contraddice la legge dell’amore. È un romanzo che graffia, e in certi passaggi fa male. Deve far male, perché il male che racconta è troppo grande per essere rimosso. L’ostinazione del vescovo a non capire emerge già dalle prime pagine: «Aveva chiesto di nuovo e ostinatamente di essere ricevuta. Perché il metodo vescovile di dissuasione era non rispondere, lasciar passare il tempo, lasciar cadere, ecco». La protagonista, invece, non lascia cadere, non lascia passare il tempo, e con lei anche il lettore non può lasciare perdere, ma deve trovare il coraggio di scalare tutte le 192 pagine per vivere il dolore dalla parte della vittima.