Il buon funzionamento di una democrazia parlamentare dipende dal buon funzionamento dei partiti, che ne costituiscono – piaccia o no – il nerbo essenziale. Dipende dai partiti più ancora che dalle istituzioni, che pure restano ovviamente un presidio fondamentale. Lo dimostra in modo chiaro quanto sta avvenendo oltre le Alpi. La Francia possiede un’ossatura costituzionale particolarmente robusta, un sistema elettorale maggioritario (per di più a doppio turno, formula più stabilizzante del turno unico) e, non ultimo, un ordinamento amministrativo di proverbiale solidità. Eppure la crisi politica che attraversa quel Paese è sotto gli occhi di tutti e la sua radice è nella crisi dei partiti. Certo, si può argomentare che gli altri fattori enumerati consentono (meglio: hanno consentito finora) al sistema di reggere comunque l’impatto della crisi, ma questa circostanza non contraddice il fatto che l’origine di tale crisi sia da ricercare soprattutto nella crisi dei partiti.
Che il fattore determinante siano i partiti lo conferma con pari chiarezza la situazione italiana. La stabilità governativa che ora viene stimata anche a livello internazionale non è il prodotto prevalente di un sistema istituzionale ed elettorale, rimasto sostanzialmente invariato, ma è legata alla presenza di un partito decisamente più forte degli altri (nella sua coalizione, soprattutto) e di un (una) leader che nessuno mette in discussione, a cominciare dal suo stesso partito. Non è una sottolineatura scontata. Per stare ai partiti più rappresentativi, nella seconda forza politica italiana per numero di consensi, il Pd, la leadership di Elly Schlein è costantemente sotto tiro, sia a livello nazionale che sul piano locale. Per rimanere in zona “campo largo”, anche la leadership di Giuseppe Conte nel M5S non è più così granitica, come dimostra il caso Appendino. Nella coalizione di governo, la Lega è una pentola in ebollizione. Anche in questo caso e più ancora che nel Pd, l’attacco alla leadership di Matteo Salvini ha una caratura nazionale (la mina vagante Vannacci) e una dimensione almeno altrettanto insidiosa sul piano locale, in capo ai cosiddetti “governatori”. Forza Italia appare in questa fase relativamente tranquilla, ma sulla prudente gestione Tajani incombe sempre l’eredità di quello che è stato il primo partito personale della storia della Repubblica, con i suoi legami familiari ed economici.
Anche all’interno di Fratelli d’Italia ci sono varie anime, ma i risultati elettorali sono tali da bloccare qualsiasi velleità di opposizione a Giorgia Meloni. Attenzione, però, a non equivocare. La questione non è il pluralismo dentro i partiti. Tale pluralismo è grande un valore, non un problema. Secondo un’interpretazione oggi prevalente, il richiamo della Costituzione al “metodo democratico” nell’attività dei partiti si riferisce proprio a un dibattito interno autenticamente pluralista e rispettoso delle differenze, aperto a contributi nuovi e costruttivi. Il vero problema è che si oscilla tra un leaderismo che mortifica in radice la partecipazione e la quotidianità di uno scontro che talvolta sembra alimentarsi soltanto di ambizioni e di rivalità personali. Non c’è da meravigliarsi se poi l’affluenza alle urne non riesce a riprendersi.