Quando ci adoperiamo per “fare del bene”, in qualsiasi contesto esso sia, poniamoci prima un filtro tra noi e l’azione, osserviamoci, per quanto possibile, dall’esterno, nell’insieme. E domandiamoci: lo stiamo facendo per gratificazione personale o stiamo veramente ascoltando il reale bisogno di quella persona, di quell’individuo a cui stiamo rivolgendo il nostro bene? È un concetto sempre valido e calza anche quando si parla di povertà e di fame nelle nostre città, nei luoghi in cui siamo più o meno presenti, attivi, impegnati. Una riflessione maturata anche in suor Albina Zandonà, che da direttrice delle Cucine economiche popolari, in questi hanno ha toccato storie, drammi, testimonianze di una fragile, ma dignitosa umanità: «Certe iniziative nascono perché abbiamo bisogno noi di farle nascere. Se vogliamo, dare da mangiare è la cosa più semplice che si possa fare, ma perché lo facciamo? È solo questo quello di cui la persona ha bisogno? Diverso è, invece, il prendersi carico dell’individuo nella sua interezza in situazioni di vulnerabilità e in situazioni di povertà, perché vuol dire incontrarsi, vuol dire darsi tempo, è non è soddisfare “solo” il bisogno del cibo. A Padova ci sono anche troppe risposte legate al cibo con l’effetto contrario di vedere ospiti mangiare prima da noi, mangiare poi da altre realtà o anche buttare talvolta gli stessi piatti, tanto hanno modo di “scegliere”. Quello che serve è metterci in rete e dirsi “ma è proprio necessario quello che io sto facendo?”»
A Padova le iniziative sono encomiabili e si differenziano per tipo di utenza. Oltre alla Cucine economiche popolari che servono pranzi e cene per quella fascia di povertà estrema, citiamo per esempio i frati cappuccini del santuario di san Leopoldo che offrono ogni giorno pranzi completi e che hanno visto passare sempre più italiani, padri separati o persone che fanno fatica a pagare visite mediche; c’è don Albino Bizzotto che consegna i panini alla sera, c’è la cucina mobile che in stazione, soprattutto durante i mesi invernali, offre piatti caldi ai senzatetto; e poi ci sono le iniziative della Comunità Sant’Egidio o della Caritas, come la raccolta di generi alimentari rivolti a nuclei familiari. Una rete che forse rete ancora non lo è del tutto, ma che ha preso consapevolezza della necessità di connettersi: «C’è un inizio, stiamo portando avanti degli incontri, in cui sono coinvolti anche i Servizi sociali del Comune – racconta suor Albina – Partiamo da questo presupposto: se un utente ha un dormitorio gratuito, un buono, un cibo gratis perché si dovrebbe dare da fare? Stare in rete ci aiuta a capire che nessuno di noi è la risposta definitiva delle persone, ognuno di noi fa un pezzettino. Invece capita di mettere in atto degli interventi già portati avanti da qualcun altro. Quindi l’obiettivo degli incontri è proprio quello di focalizzarci sulla persona, non sui nostri servizi. La persona in questo momento di cosa ha bisogno? Forse ha bisogno maggiormente, per dire, di essere accompagnata in una ricerca lavoro più che del pane. Sono visioni e prospettive a 360°: la persona è molto più ampia di quel circoscritto bisogno. Se metto l’individuo al centro devo anche avere la capacità di guardarlo nell’insieme».
Per quanto sia un incasellamento approssimativo, tendiamo a guardare la società in un’epoca pre e post pandemia. Anche i numeri di accessi nella struttura di via Tommaseo, dal 2019 gestita dalla Fondazione Nervo Pasini, hanno risentito del lockdown, del graduale e successivo ritorno alla normalità e di un flusso in crescita, parliamo di una media di cento nuovi tesserini al mese. «I numeri stanno aumentando perché ovviamente è ripreso a crescere lo spostamento degli utenti: cento tessere al mese vuol dire che c’è anche un giro veloce di persone che magari si fermano a Padova solo due-tre giorni, magari vedono che non trovano lavoro o un luogo dove dormire e ripartono. I numeri sono in aumento, ma non possiamo dire che c’è stata una crescita legata agli effetti economici e sociali della pandemia, proprio perché le persone che vengono qua sono o erano già in una situazione di grave marginalità al punto che il Covid è passato sopra le loro teste: non hanno una casa, un lavoro, non hanno nulla, gli rimaneva da perdere la vita. Ecco perché insisto su una presa in carico della persona e di dargli una vita dignitosa, perché non basta l’accoglienza, ammesso di essere in grado di accogliere veramente. Ma è una responsabilità che riguarda tutti, tutta la società a diversi livelli perché a farli lavorare in nero, tenendoli così, in una situazione di marginalità e irregolarità, siamo noi, siamo noi bravi italiani, medici o avvocati, che facciamo tinteggiare la casa così costa meno. Ma se continuiamo con questa mentalità, non vedremo mai dei cambiamenti, anzi saremo noi l’ostacolo».
Chi ha subito maggiormente gli effetti della pandemia sono quelle famiglie (magari monoreddito) che hanno visto uno o più componenti perdere il lavoro. Ma suor Albina precisa: «Qui alle Cucine popolari sono una parte minoritaria: questo significa che prima di rivolgersi a noi ci sono tante realtà attive sul territorio e attente ai bisogni dei cittadini. È un aspetto positivo di Padova, mentre in altre città più grandi si è avuta una tendenza differente proprio perché probabilmente non c’è una rete sociale così forte come nella nostra città».