Idee
A chi spetta educare bambini e ragazzi all’affettività e alla sessualità? O addirittura, si deve fare educazione affettiva e sessuale o è meglio che le cose accadano e basta perché chi propone percorsi di formazione su tematiche sessuali è spesso un attivista ideologizzato, come sostiene qualcuno? Esiste, nel nostro Paese, un problema di rispetto delle idee, della libertà e del corpo delle altre persone, in particolare delle donne, oppure possiamo essere sereni perché sopraffazione e abusi appartengono al passato?
Rispetto a domande come queste sembra che non si riesca a rispondere se non in modo ideologico, trovando strade per non rispondere davvero o per lasciare il peso della formazione emotiva e sessuale tutta sulle spalle delle famiglie. Che ci provano da sole a volte o in rete con altre famiglie e che in alcuni casi incontrano il supporto di associazioni o parrocchie che propongono tra le loro attività corsi per preadolescenti. Ma che il più delle volte non hanno strumenti e competenze per affrontare temi delicati e lasciano il campo libero a chi “informa” con finalità poco educative. Il dibattito in queste settimane si è riaperto dopo che il 15 ottobre è stato approvato un emendamento (primo firmatario la deputata Giorgia Latini, della Lega, vice presidente della settima Commissione cultura, scienze e istruzione della Camera dei Deputati) nell’ambito della discussione sul disegno di legge proposto dal ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, sul consenso informato. Secondo quanto votato preliminarmente dai partiti della maggioranza, parlare di educazione affettiva e sessuale facendosi aiutare da persone esperte esterne alla scuola sarà vietato nelle scuole fino ai 14 anni – dalla scuola dell’infanzia fino alle medie – e possibile alle superiori solo con il consenso dei genitori, che dovranno conoscere temi e materiali proposti dagli stessi esperti esterni. L’obiettivo dichiarato è quello di riaffermare il ruolo educativo delle famiglie e di impedire «tentativi di indottrinamento da parte di attivisti di estrema sinistra Lgbt», secondo Rossano Sasso, capogruppo leghista in Commissione cultura e relatore del ddl Valditara. L’intervento è, invece, grave e oscurantista secondo le forze di minoranza che ritengono necessario garantire supporto alla crescita affettiva anche a scuola per raggiungere tutti. «Fin da quando ci siamo costituiti come associazione siamo presenti nelle scuole dall’infanzia alla secondaria di secondo grado passando per la
primaria con percorsi di educazione alle relazioni – illustra Mariangela Zanni, presidente dell’associazione Centro Veneto Progetti Donna – Aiutare i bambini e i ragazzi a capire come si costruiscono relazioni sane tra pari, non solo tra uomini e donne, ma anche tra amici e compagni di classe permette di coltivare il rispetto reciproco e, passo dopo passo, un’idea di consenso che prevede che l’altro possa accettare o rifiutare il nostro modo di stare con lui».
Negli ultimi otto anni il Centro ha raggiunto 280 classi e oltre 6.200 studenti (tra scuola primaria e scuola secondaria) nella Provincia di Padova, e formato circa 1.200 tra educatori, insegnanti e genitori. Un impegno che si è rinnovato nel corrente anno scolastico, visto che alle scuole è stata presentata un’offerta formativa unitaria, “Tavolo prevenire e promuovere”, che vede impegnati il Comune, la Provincia e l’Università di Padova, l’Ufficio scolastico regionale per il Veneto, l’Ulss6 Euganea, la Camera di commercio, la Fondazione Giulia Cecchettin e appunto il Centro Veneto Progetti Donna. Per le scuole secondarie per esempio è proposto il corso di educazione sessuale e affettiva “È amore (di) sicuro” con due incontri, uno guidato da ginecologhe e infermieri a carattere più sanitario, il secondo tenuto da psicologi ed educatori sulle relazioni affettive. «Tutti gli interventi che proponiamo sono percorsi di
prevenzione sulle modalità di relazionarsi anche con il corpo degli altri, si lavora sulla coscienza
preventiva per evitare fenomeni come la pretesa di controllo sugli altri». Iniziare presto, già al nido o alla scuola dell’infanzia, è importante, spiega Zanni, perché i più piccoli sono liberi da stereotipi, non è necessario decostruire stereotipi tipici dell’età adulta e si punta a valori quali solidarietà e bene. «Nel caso
di alunni più piccoli coinvolgiamo i genitori perché sono loro il modello che i bambini conoscono, ma anche per informarli e aiutarli a riconoscere modelli diversi di vivere le emozioni nella coppia». Nel caso in cui si vietassero i percorsi di educazione affettiva e sessuale nelle scuole, il vuoto verrebbe riempito, assicura la presidente del Centro Veneto Progetti Donna: «I ragazzi imparano da siti più o meno leciti e più o meno adatti, da film o da romanzi. C’è tutto un sistema culturale in cui sono immersi che li porta a pensare a un modello stereotipato delle relazioni, finto romantico, con l’uomo forte che conquista
protegge e la donna che attende e va corteggiata. Un modello nel quale non esiste vero amore se non è totalizzante mentre noi sappiamo che il massimo controllo è proprio uno dei segnali di relazioni abusanti». Lasciare il compito di formare su questi temi alle famiglie sarebbe rischioso, conclude Mariangela Zanni: «In Italia un terzo delle violenze contro le donne avviene proprio nel contesto familiare. Non possiamo pensare che sia proprio la famiglia l’unica istituzione a svolgere la funzione educativa e formativa su questi temi».
Da una recente indagine di Save the Children emerge che, per esempio, il 30 per cento degli adolescenti
considera la gelosia un segno d’amore, e il 21 per cento ritiene che condividere le password con il partner sia una prova di fiducia. Il 17 per cento pensa che «ogni tanto possa scappare uno schiaffo» in una relazione intima. Mentre nell’universo digitale, il 26 per cento ha subito il controllo da parte del partner tramite profili social falsi, mentre l’11 per cento si è visto diffondere foto intime senza consenso.